martedì 29 dicembre 2015

Rinascimento privato

Finisco il 2015 leggendo Rinascimento privato, di Maria Bellonci. Un libro che da moltissimi anni mi ripromettevo di leggere: lo avevo in casa da ragazzina, lo prestai, non mi è mai stato restituito... il desiderio di leggerlo era rimasto intatto, ma era come se aspettassi il suo ritorno sulla mia libreria. Alla fine mi sono rassegnata all’evidenza, ho smesso di aspettarlo, e l'ho preso in prestito in biblioteca. Un libro che all'inizio mi ha creato qualche difficoltà; ammetto di non ricordare molto della storia del cinquecento e nelle prime pagine ho faticato un po' ad orientarmi. Ma la lettura si è rivelata da subito affascinante, prima di tutto per la lingua utilizzata. La Bellonci usa un linguaggio punteggiato di parole desuete e forme arcaiche che conferiscono alla narrazione una seducente patina di antico. Ammaliata da questo stile particolare mi sono lasciata conquistare dalla narrazione e adesso che l'ho finito non posso fare a meno di esprimere un giudizio entusiasta! Si tratta di una autobiografia immaginaria di Isabella d'Este, figlia di Ercole Duca di Ferrara e Marchesa di Mantova in seguito al matrimonio con Francesco II Gonzaga. Sua madre era la figlia del Re di Napoli; sua sorella la moglie di Ludovico il Moro; suo fratello sposò in seconde nozze Lucrezia Borgia, figlia di Papa Alessandro VI e sorella del famigerato Valentino. La nostra Isabella curava attivamente gli interessi della famiglia e del suo Marchesato destreggiandosi tra Francia, Venezia, Papato, Impero; non meno importanti erano i suoi contatti intellettuali e artistici. Giovinetta alla corte di Ferrara ebbe a che fare con Pico della Mirandola, a Mantova incontrò tra gli altri Niccolò Machiavelli e Ludovico Ariosto, suo ambasciatore era Baldassarre Castiglione, suo pittore di corte Andrea Mantegna; e tra gli artisti con cui fu in relazione
figurano Tiziano, Perugino, Leonardo da Vinci, il Correggio; alla sua corte lavorarono i compositori Bartolomeo Tromboncino e Marchetto Cara. Insomma era in contatto con tutti i grandi del tempo. I libri di storia ce la restituiscono come una donna colta, appassionata di arte e di musica, abile diplomatica e assai capace in politica, tanto da essere definita la "Primadonna del Rinascimento". Alla morte del marito governò Mantova come reggente del figlio Federico e si adoperò con successo per aumentare il prestigio del suo marchesato. Infatti Mantova divenne un ducato, e per il figlio minore Ercole Isabella riuscì ad ottenere il titolo di cardinale. Nel libro della Bellonci questi e molti altri avvenimenti vengono descritti dal punto di vista privato della Marchesa che nel 1533, nella sua Stanza degli orologi, ripercorre la sua vita narrandone i fatti salienti e intervallando il filo dei ricordi con le lettere a lei spedite da un prelato inglese (“anglico”, come lo definisce lei) che ha incontrato una sola volta e con il quale si è instaurato un rapporto intenso ancorché espresso soltanto attraverso queste lettere che le giungono a distanza di anni, e alle quali lei non risponde mai.
Tanti sono gli aspetti che mi hanno colpito di questa narrazione. Non si può resistere al fascino di questa donna, vera stratega e abilissima diplomatica, capace di destreggiarsi nel complicato intrigo di rapporti tra le potenze del tempo e di uscirne vittoriosa. Mi è piaciuto molto il modo in cui la Bellonci dipinge questo personaggio, umanissimo ed estremamente femminile. Una donna di potere e di governo che aveva una vera passione per gli abiti, i gioielli, la cosmesi, la bellezza in generale. Una donna che viveva intensamente la sua condizione di madre; ebbe nove figli, tra i quali tre maschi destinati a vite importanti, per i quali palpitava e si adoperava senza risparmiarsi. “Avevo dedicato venticinque anni di meditate invenzioni a favoleggiare e a crescere, col figlio delle mie viscere, il figlio del mio spirito.” La vita di corte viene descritta in modo mirabile, e davvero sembra di vederlo il gruppo di donne che fa compagnia alla Marchesa e segue le sue indicazioni in merito a pettinature elaborate, abiti raffinatissimi, musica, poesia e passatempi vari, e che naturalmente ha un suo ruolo nelle politiche del marchesato dei Gonzaga. Una dama di Isabella, detta la Brognina, spicca per bellezza e intelligenza, e coglie clamorosi successi a Milano, dove si è recata al seguito di Isabella, che è stata chiamata a conferire fasto e splendore alla corte ducale degli Sforza. Durante quel soggiorno, fitto di cene, di balli e di tornei, le vittime della bellezza della Brognina e del suo brillante gioco seduttivo furono molteplici e importanti: il rappresentante imperiale a Milano, Matteo Lang, vescovo di Gurk, il viceré di Napoli Raimondo de Cardona, e il Duca di Milano in persona.
Tra i tanti episodi narrati in questo romanzo, memorabile l’incontro tra Isabella e Lucrezia Borgia, sua cognata, e ben presto anche sua rivale in quanto diverrà amante del marito. L’incontro avviene a Mantova; la marchesa, nel predisporre l’accoglienza per l’illustre ospite, fa si che non venga disposta una sedia per lei, la quale è costretta a non trattenersi e a togliere presto il disturbo; e ricambia la scortesia andandosene senza salutare.
L’aspetto che mi ha più avvinta in questa lettura è stata, comunque, la bravura della scrittrice nel creare uno stile narrativo “antico” del tutto plausibile, fondamentale per immergere il lettore nel clima cinquecentesco e accompagnarlo in una sorta di viaggio nel tempo. Ho amato in particolare l’uso di termini antichi e desueti, capaci da soli di evocare una certa atmosfera, un’ ambientazione, la “tinta” di un’intera epoca. Affascinanti i termini che definiscono i colori: tané per castano, berrettino per bigio, carnicino per roseo, lionato per fulvo…così come tante altre parole, le costruzioni dei periodi, la sintassi in generale, che mi hanno fatto apprezzare ed amare non solo il grande personaggio storico di Isabella d’Este, ma anche la grande scrittrice Maria Bellonci! Che è stata capace di rendere la complessità psicologica e la grandezza storica della sua eroina punteggiando il testo di frasi icastiche e memorabili. Una su tutte: “La mia natura è tale che preferisco una calda angoscia ad una frigida pace.” Un motto che, tutto sommato, sento di poter adottare anche per me.

mercoledì 9 dicembre 2015

venerdì 18 dicembre alle ore 21,30

all'Evolution Jazz Cafè
a Empoli, Piazza Ristori 18
Presentazione di Pomeriggio alle Antiche Terme
Con gli Avicenne Jazz project 
... un libro in cui non si parla né di terme, né di antichità, e nemmeno di jazz...
un libro in cui si parla di DONNE ! 
Letture a cura di 
Cinzia Giuntoli
Carla Benedetti
Loredana D'Ermiliis



sabato 5 settembre 2015

Io & la Biblioteca Fucini, un amore al di là del tempo

Si avvicina Nottissima, “la notte bianca in Biblioteca”. Apertura della “Renato Fucini” dalle 18.30 alle 2.00, una kermesse sparsa in tutta la città e fatta di teatro, musica, artisti di strada, mercatini, di tutt’un po’. La Biblioteca comunale, com’è giusto, si adegua alle esigenze dei tempi e si spettacolarizza. Rispetto l’evento e mi fa piacere che al centro di tanta creatività e dinamismo ci sia questa istituzione empolese cui sono affezionatissima. Mi accorgo di avere ormai una certa età e provo a ricordare quand’è stata la prima volta che sono entrata alla Fucini. Credo di non sbagliarmi; anni a cavallo tra i ‘70 e gli ’80, facevo le scuole medie, e dovevo svolgere una ricerca su Giacomo Puccini. Altri tempi, senza internet, con in casa certe enciclopedie seriose con le pagine in bianco e nero e poche immagini, che facevano passare la voglia  di documentarsi invece di invogliarti a leggere. Andai in Biblioteca, se non ricordo male, con una amica. La memoria mi rimanda immagini che interpreto a fatica, una geografia tutta diversa dall’attuale; d’istinto, mi verrebbe da dire che l’ingresso era da Via Leonardo Da Vinci; mi sembra di ricordare una scala esterna, e poi l’accesso alla grande sala lettura del primo piano. La memoria sovrappone i piani temporali e se penso a quel mio primo ingresso vedo la sala così come l’ho vista in seguito, così come la vedo adesso: lo spazio suddiviso dalle scaffalature inframezzate a grandi tavoli. Magari, chissà, all’epoca gli spazi erano organizzati  diversamente, ma io li ricordo così. Ne fui subito conquistata. Sentii immediatamente il fascino di quel luogo arcano e silenzioso in cui si respirava il clima importante della cultura documentata, fatta di libri letti e da leggere, studiati e da studiare. Non l’ ho più abbandonata, alternando periodi di intensa frequentazione a momenti di minor assiduità, determinati dalle varie vicende della vita. Tra i ricordi della mia giovinezza, con piacere rivedo un pomeriggio in cui con una amica mi recai in Biblioteca alla caccia di giornali successivi al primo maggio 1976, giorno della morte di Alekos Panagulis. Avevamo letto “Un uomo” di Oriana Fallaci e ci eravamo innamorate del rivoluzionario greco protagonista del libro. Volevamo
vederlo in faccia e contavamo di trovare qualche foto a corredo degli articoli relativi alla sua morte; e i giornali del 1976 potevamo trovarli solo in Biblioteca. All’epoca anche i quotidiani si consultavano al primo piano, nell’unica grande sala di lettura, e rivedo la fibrillazione con cui io e la mia amica sfogliavamo le pagine dei vecchi quotidiani alla ricerca di fotografie di Panagulis. E quando le trovammo…che delusione. Chissà cosa ci aspettavamo; un attore, un modello, un calciatore. Erano gli anni di Cabrini, magari ci immaginavamo un tipo atletico e muscoloso, dalla fronte alta e gli zigomi scolpiti. Invece ci trovammo di fronte alle immagini di un uomo fisicamente assai normale, con i capelli scuri e folti e due enormi baffi che lo facevano somigliare a un funzionario statale, a un poliziotto imbolsito, altro che l’intrepido eroe raccontato dalla Fallaci. E andando in Biblioteca tutti i giorni trascorsi le memorabili vacanze di Natale in cui dovetti dedicarmi alla lettura del “Niccolo’ de’ Lapi” di Massimo d’Azeglio, con stesura di relativa relazione. Avevo iniziato la lettura di malavoglia, deprecando il fatto di dover spendere gran parte delle mie vacanze su quel testo antiquato e barboso invece di andare a divertirmi, eppure quanto mi appassionai… i Palleschi e i Piagnoni, Francesco Ferrucci, Gavinana, …Vile, tu uccidi un uomo morto! E quanto tempo trascorso in Biblioteca negli anni di Università, una Biblioteca rinnovata e ampliata, con le sale al pian terreno e l’ingresso da Via Cavour; ore, giorni, settimane per gli esami, per la stesura della tesi, e ancora, dopo la laurea, ore, giorni e settimane per prepararmi per i concorsi… ed essendo in seguito diventata mamma, ho a lungo frequentato anche la sezione ragazzi nel frattempo allestita, accoccolata sulla mia brava seggiolina accanto a Raffaele che voleva leggere e rileggere e ri-rileggere sempre gli stessi libri… e così sono passati altri anni e mi ritrovo al giorno d’oggi. Non ho più ricerche da fare, esami da preparare e nemmeno bambini da accompagnare, ma in Biblioteca vado ancora; nella
sezione ricavata nel corridoio coperto del primo piano che circonda il chiostro ci sono i tavoli con le prese di corrente per i computer, quanto di più adatto per rifugiarsi a scrivere in un luogo protetto  in cui non mi può accadere nulla di sgradevole. Ricordo, qualche tempo fa, una settimana intera di ferie che mi sono regalata e che ho trascorso a scrivere in Biblioteca. Era un periodo piovoso, ogni tanto alzavo gli occhi dal computer e guardavo al di là del finestra, nel chiostro. L’acqua che scendeva giù implacabile e monotona portava con sé tutti gli anni e i ricordi del passato. Intorno a me, ragazzi chini sui libri o intenti a scrivere al pc, circondati da fogli, penne e quaderni, e io mi sentivo, in fondo, una di loro…forse è per questo che la Biblioteca mi piace tanto tutt’ora, perché per me funziona un po’ come macchina del tempo… 

giovedì 27 agosto 2015

La camera azzurra - Georges Simenon

Di Simenon ho letto, come molti, i romanzi con protagonista Maigret raffigurandomi mentalmente il commissario parigino con il volto e le fattezze di Gino Cervi. Per motivi d'età non ho visto lo sceneggiato quando fu trasmesso in TV la prima volta, ma ho visto qualche replica e tante foto di scena. Credo che la triade Simenon – Maigret – Cervi sia ben radicata nell'immaginario collettivo di lettori e spettatori italiani di ogni età. Ma se devo essere sincera il Simenon migliore, o almeno quello che a me piace di più, mi sembra quello lontano da Maigret. Ho letto con grande piacere, negli anni scorsi, "La neve era sporca", "L'uomo che guardava passare i treni" e "Tre camere a Manhattan", romanzi senza il famoso commissario che ho trovato uno più bello dell'altro. Ma l'ultimo che ho letto, quest'estate, sotto l'ombrellone, mi ha proprio conquistata. Parlo de "La camera azzurra", pubblicato da Simenon nel 1964. Un romanzo in cui è presente l'elemento poliziesco e giallo, ma in cui sono altri gli aspetti più rilevanti. La storia, di per sé, non è originalissima, ma è proprio la costruzione narrativa che affascina e rende questo romanzo un vero capolavoro, tanto che è stato definito "quasi insopportabile per quanto è bello". La prima scena, ambientata nella camera azzurra del titolo, ci presenta i due protagonisti, gli amanti Antoine e Andreé, che si riposano dopo un pomeriggio di sfrenata passione. Una scena vivida, che immette subito al cuore della storia, con una descrizione precisa e efficace che lungi dal fermarsi all'aspetto esteriore di quanto tratteggiato introduce psicologia dei personaggi e importanti elementi che poi ritroveremo nel prosieguo della narrazione. La quale si sviluppa su livelli temporali diversi; al momento in cui il fatto si svolge si affiancano i successivi interrogatori attraverso i quali i protagonisti chiariscono i particolari della loro esistenza; parallelamente a tutto ciò, la ricostruzione del passato. Insomma un intreccio piuttosto complesso, ma condotto con una maestria tale che non si perde mai l'orientamento, tanto che, ripensandoci, sembra di ricordare una narrazione assolutamente lineare e convenzionale. Ma non è affatto così. La storia di Antoine, sposato con Gisele e padre della piccola Marianne, e di Andreé, moglie del malaticcio Nicolas, si svolge nel microcosmo piccolo borghese di Saint Justin du Loup, anonimo luogo della provincia francese, e la vicenda è classicamente incentrata sull'intreccio tra adulterio e delitti. Al di là del plot e della costruzione narrativa utilizzata, altra notevole caratteristica del romanzo
l'efficacia della descrizione dell'ambiente provinciale in cui il tutto si svolge e della psicologia dei personaggi, infelici e come imprigionati all'interno delle loro vite modeste e routinarie, cui solo la passione può portare un fremito di vitalità. Ma la passione e la vitalità possono essere travolgenti e pericolose... fino a diventare devastanti. Di tutte queste magistrali pagine alcuni elementi mi sono rimasti più impressi di altri. Ho trovato davvero ineguagliabile la capacità di Simenon di descrivere la vita familiare e domestica nella sua feroce ambivalenza, da una parte piatta e ripetitiva, e perciò esecrabile, ma dall'altra estremamente rassicurante, e quindi desiderabile, soprattutto nei momenti in cui si ha paura di qualcosa. Una descrizione che non ricorre a fiumi di parole o riflessioni o elucubrazioni, ma che si limita a tratteggiare situazioni, e a farlo con le parole giuste, poche e giuste. A un certo punto Antoine, spaventato per le possibili conseguenze della sua storia adulterina, nel cercare un rifugio sicuro ai propri malesseri se ne va in vacanza al mare con la famiglia, e si presta ai giochi della figlioletta lasciandosi tiranneggiare dalle sue continue richieste. "Non avrebbe saputo dire se lo facesse con la sensazione di compiere un dovere, per farsi perdonare una debolezza, per riscattare una colpa. Sapeva solo che quella passeggiata sotto il sole, accompagnata dalla vocetta di sua figlia, era dolce e malinconica al tempo stesso. Si sentiva felice e triste. Ma non a causa di Andreé né di Nicolas. Non ricordava di averci pensato. Felice e triste come la vita, così avrebbe voluto dire." Grande Simenon!        

giovedì 20 agosto 2015

Follia - di Patrick McGrath

Da tanto tempo volevo leggere questo libro. Lo ricordo appoggiato sul coperchio chiuso di un pianoforte verticale in casa di qualche amico, almeno quindici anni fa. Lo presi, scorsi velocemente la quarta di copertina, mi ripromisi di leggerlo. Poi rimandai, perchè stavo leggendo altro. Di rinvio in rinvio, di libro in libro, di anno in anno, finalmente quest'estate l'ho comprato e l'ho letto, con una aspettativa proporzionale al tempo trascorso da quella mia prima intenzione, e quindi, forse, un po' esagerata. La storia è nota. Siamo in Inghilterra, alla fine degli anni '50. Stella, moglie di Max Raphael, vicedirettore di un manicomio criminale, e madre di Charlie, descritta come una donna molto bella e sensuale, si innamora di un paziente recluso nell'istituto per aver ucciso (e decapitato) la moglie. Il sentimento è ricambiato e i due vivono una sorta di ossessione amorosa fino alle estreme conseguenze; lui scappa dall'istituto, lei lo segue, e per un periodo convivono in un sobborgo di Londra degradato e fatiscente. Edgar è un artista, uno scultore, che, lontano dal manicomio, cerca di riprendere la sua attività creativa plasmando una testa dell'amata, ma è anche un uomo ammalato, geloso e violento, che inizia a maltrattare e malmenare Stella, che si rifugia sempre più nell'acool. Le cose precipitano, i due vengono riacciuffati e ricondotti all'istituto, Stella deve seguire il marito che dopo lo scandalo viene trasferito a lavorare in un' altra struttura... nell'ultima parte del romanzo la vicenda vira decisamente al drammatico, come a sottolineare che la follia amorosa non può portare a nulla di buono se non al male e alla perdizione. La narrazione è condotta da Peter Cleave, psichiatra collega del Dr. Raphael, con il tono distaccato e freddo di chi ha dimestichezza più con le anamnesi e le diagnosi che con il racconto e l'analisi dei sentimenti. Tanti temi, tante suggestioni, tante riflessioni, che ruotano tutte attorno a un unico interrogativo, se l'amore possa - e debba - avere un senso o no.
La prima cosa cui questo romanzo mi ha fatto pensare è stata una frase di
Cesare Pavese tratta dal Mestiere di vivere: "Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre." La frase a dire il vero non si adatta esattamente a quanto narrato in Follia, perchè Stella non è certo spinta verso Edgar dalla volontà di salvarlo né lo percepisce come un "rottame". Però - e la seconda parte della frase di Pavese va comunque declinata invertendo i sessi - in questo libro un uomo non stupido trova una donna sana e la riduce a rottame. In nome appunto di quell' amore che forse è solo una follia... Le domande di questo libro restano senza risposta, o piuttosto con l'unica risposta possibile che è il titolo del romanzo stesso (che nell'originale è "Asylum", manicomio): amore come passione obnubilante, come voragine irrazionale, come pazzia ingovernabile.
L'aspetto di questo romanzo meno convincente, per me, è stato il tono narrativo. Probabilmente con la volontà di rendere una narrazione che fosse quasi un resoconto, una cronaca, un referto medico, lo stile resta piuttosto algido dall'inizio alla fine, ci sono pochissimi dialoghi, la materia non sembra mai "partecipata" ma, appunto, "relazionata". La vicenda è appassionante e i personaggi interessanti, ma non li ho mai sentiti vivi né mi sono affezionata a loro, cosa che di solito mi succede. Da qui il mio giudizio ambivalente su questo libro, che ho letto volentieri, ma che non rileggerei.

mercoledì 5 agosto 2015

Shining, di Stephen King

Non avevo mai letto nulla di Stephen King, eccezion fatta per “On writing”, una sorta di autobiografia del mestiere, in cui lo scrittore americano parla dell’arte dello scrivere pur senza comporre un manuale di scrittura. Quel libro mi era piaciuto molto; stile piacevole, formula originale  - un po’ diario, un po’ confessione, un po’ chiacchierata – e poi tanti consigli utili sulla scrittura, semplici, diretti, veri, tipo: Se volete fare gli scrittori, ci sono due esercizi fondamentali: leggere molto e scrivere molto. Non conosco stratagemmi per aggirare questa realtà, non conosco scorciatoie. Però non avevo letto nemmeno un suo romanzo. Le sue tematiche non mi attraggono, l’horror non mi ha mai interessato né in letteratura né al cinema, il soprannaturale proprio non rientra tra le mie preferenze saldamente ancorate alla realtà delle cose, dei fatti e delle persone. Però mi sembrava brutto non aver letto nulla di un autore così prolifico e di successo, molto amato, tra l’altro, da mio fratello e da mio figlio… e così mi sono decisa, e ho scelto di leggere “Shining”. Sono sicura che la visione del film non la reggerei – i film di paura mi fanno, appunto, troppa paura – ma pensavo che la lettura del libro avrebbe potuto appassionarmi. Però devo ammettere che così non è stato. Non so perché, credo molto abbia a che vedere col fatto che la mia è una natura estremamente realista e se mi vengono a raccontare che uno ha le visioni e riesce a rivivere le cose del passato o a vedere quel che succederà nel futuro la cosa mi lascia indifferente; a pensarci bene, sono gli aspetti propriamente fantastici delle narrazioni che proprio non mi attirano, per esempio quando nei romanzi succede che i personaggi raccontino i loro sogni, in genere scorro velocemente il passo, o addirittura lo salto del tutto. E così non ho simpatizzato con questo bambino dotato di potere extrasensoriale, lo “shine”, così come l’intera vicenda dell’entità sinistra che possiede l’Overlook Hotel e che finisce per
sopraffare il suo guardiano invernale impadronendosi di lui e portandolo alla morte non mi ha poi molto appassionato; insomma ho letto questo libro con un po’ di fatica. Il fatto è che mentre leggevo non riuscivo a immaginarmi le visioni, i morti che tornano, le voci che riecheggiano nei corridoi, i cigolii sinistri, proprio perché il mio cervello è refrattario alla dimensione fantastica e quindi non riesce a elaborare scene irreali. Riconosco che il libro è scritto bene e dal punto di vista letterario è un prodotto che non fa una grinza. Ma io non ne sono rimasta colpita, non mi ha coinvolta. Quando ho finito l’ultima pagina e, come faccio solitamente al termine di una lettura, mi sono chiesta quale fosse, per me, il nucleo centrale del romanzo, il tema fondamentale, insomma il messaggio che il testo mi ha fatto arrivare, ho creduto di scorgerlo nella riflessione sull’immortale tema del rapporto padre-figlio. Nel romanzo le forze del male cercano di impossessarsi sia del padre  - e alla fine ci riescono – che del figlio – il piccolo Danny, di soli cinque anni; ma quest’ultimo, che teoricamente dovrebbe essere il soggetto più debole e quindi più facilmente conquistabile, riesce ad opporsi all’attacco delle “presenze” fronteggiando, nel drammatico finale, il proprio padre ormai posseduto, e riuscendo ad avere la meglio su di lui. Il quale morirà tra le fiamme dell’Overlook Hotel mentre Danny si metterà in salvo con la mamma. Per crescere bisogna uccidere il proprio padre, o farlo perire tra le fiamme, insomma inventarsi qualcosa per liberarsene... il tutto metaforicamente, s’intende…    

venerdì 22 maggio 2015

Scrivere a quattro mani

Sarà perchè ho iniziato con lettere e diari, ma il mio approccio alla scrittura è sempre stato molto personale, intimo, solitario; e quando con Emiliano Bezzon è venuta fuori l'idea di scrivere qualcosa insieme mi sono chiesta se potesse funzionare. Il progetto, poi, prevedeva di dedicarsi a un romanzo, niente di tecnico che potesse prestarsi a una facile distribuzione e suddivisione di compiti. Scrivere insieme un'opera di fantasia, e per di più a distanza... come ci siamo divertiti a calcolare, abitiamo a 272.7 Km di distanza in linea d'aria, che diventano ben 364.8 se calcolati come distanza di guida. Che sistema avremmo
adottato? Come avremmo proceduto? Chi avrebbe fatto cosa? Oltretutto, non potevamo contare né su una qualche forma di collaborazione pregressa né su un'amicizia di lunga data né su una significativa condivisione di esperienze... ci conoscevamo appena! Eppure quei pochi elementi che erano emersi da una breve conversazione a margine di un incontro di lavoro erano stati sufficienti a far sì che prendesse forma il nostro temerario progetto di scrittura a distanza e a quattro mani: la comune passione per la letteratura, la predilezione per il genere giallo, e, nello specifico, per il giallo classico, poliziesco, d'investigazione, la diffidenza per certi stereotipi di investigatori oggi di moda - cinquantenni sfigati con problemi familiari – e la voglia di creare un personaggio nuovo, positivo e diverso. Da lì siamo partiti, senza farsi nemmeno troppe domande. E così è nato "Breva di morte", scritto con un fitto scambio di e-mail... spesso durante le presentazioni del libro ci chiedono qual è il nostro modo di procedere, ma le nostre risposte non sono mai sistematiche, perché nemmeno il nostro metodo lo è. Talvolta inizia Emiliano e finisco io, talvolta il contrario, entrambi rileggiamo il testo per modifiche e integrazioni; le idee ce le mettiamo entrambi, magari discutendone un po'; certo nel nostro romanzo le parti più sbirresche sono di Emiliano mentre quelle più narrative sono mie, ma non è una regola assoluta nemmeno questa. Forse la cosa più sorprendente è stata che a dispetto dei nostri rispettivi caratteri alquanto coriacei ci siamo rivelati abbastanza malleabili nel prendere in considerazione le reciproche osservazioni e le reciproche critiche, che pure non sono mancate. Alla fine il romanzo è nato in pochi mesi, lasciandoci entrambi più che soddisfatti! Con un dubbio, però; abbiamo detto fin da subito che l'avremmo scritto "a quattro mani", ma è corretta questa dizione? In realtà la scrittura nel senso tradizionale del termine
si fa con una mano sola, la destra (o la sinistra se si è mancini), opportunamente dotata di penna... ma evidentemente "a quattro mani" ci è venuto spontaneo a causa dell'evidente abitudine, comune a entrambi, di scrivere al computer... utilizzando sulla tastiera entrambe le mani! Per quanto mi riguarda, poi, nell'adozione quasi automatica di questa definizione ha sicuramente giocato un ruolo significativo il sotteso rimando al pianoforte a quattro mani...e su questo posso ben dire di essere sola, nel senso che mai e poi mai Emiliano potrebbe sopportare la mia maniacale fissazione con l'ascolto della classica, preferibilmente a tutto volume...e già lo immagino che ringrazia Iddio per quei trecento e passa chilometri di distanza che ci separano!