martedì 14 ottobre 2014

A casa del Boia

Per lavoro organizzo una iniziativa a Lucca. Si tratta di un Seminario sulla formazione della Polizia Locale, e quando mi dicono che la sede convegnistica che ci è stata assegnata è la Casa del Boia mi suona un tantino di presa di giro. I vigili urbani alla Casa del Boia, non c'è male. Chiedo informazioni a un amico architetto lucchese; mi rassicura, dicendo che la struttura è molto bella, inaugurata da poco dopo un restauro seguito a un lunghissimo periodo in cui la costruzione ha versato in uno stato di totale abbandono e fatiscenza. Collocata proprio sulle mura di Lucca, in prossimità di Porta Elisa, diventerà un centro multimediale dedicato alla Via Francigena. Mi tranquillizzo; vabbè, qualcuno farà dell'ironia, però, a dispetto del nome, il contesto mi sembra sufficientemente nobile. Mi metto l'animo in pace e vado avanti. Il giorno del seminario il tempo è splendido, in questo autunno che fa il verso all'estate e che si presenta con giornate che se ne fregano del calendario. Arrivo alla Casa del Boia
passeggiando sulle mura, il primo ad accogliermi è un ragazzone dall'aspetto poco rassicurante, calvo ma con lunghi boccoli grigi ai lati della testa, che mi pare in perfetta sintonia con la denominazione del luogo. Invece è il tecnico, che inizia subito a occuparsi dei classici problemi di schermo, videoproiettore e computer che tanto complicano la vita di chi organizza questo tipo di iniziative. Io, intanto, dò un'occhiata intorno. Me l'ero immaginata come un antro spaventoso, una specie di caverna da orco feroce, e in effetti la sala principale della costruzione, una sala a volte dall'architettura monumentale e suggestiva, grazie a una illuminazione che fa l'occhiolino agli effetti cinematografici, può risultare un tantino inquietante. Ma non c'è nulla da temere, nella sala principale si attende oggi l'arrivo di un sottosegretario per una iniziativa che riguarda la nuova legge di stabilità; nulla a che vedere con gli affari del Boia. La cui storia, però, mi incuriosisce. Mi documento un po'. (www.lemuradilucca.it) 
Nella tranquilla Lucca repubblicana tra il 1629 e il 1783 si erano contate in tutto ottantadue esecuzioni capitali, eseguite secondo i classici sistemi dell'impiccagione o con la decapitazione con una mannaia. Con il Principato di Elisa Baciocchi fu introdotto il Codice penale napoleonico, particolarmente severe nel definire le pene capitali, ma per le esecuzioni fu adottata la più moderna ghigliottina. Quando serviva, veniva affittata dalla vicina Pisa, con esecutore compreso. 
Con il Ducato borbonico (1817 - 1847), restato in vigore il Codice napoleonico nella sua forma più severa, si decise di far costruire una ghigliottina lucchese, copiando il modello utilizzato a Firenze; a realizzarla furono gli artigiani Giuseppe Ripari e Sante Maggini. Fu inoltre assunto un esecutore di giustizia fisso, il romano Tommaso Jona, che non trovando ospitalità da nessuno fu sistemato in questo edificio isolato ai margini della città. Il 17 maggio 1825, alle ore 16, si giustiziò, sul prato di Porta San Donato, Francesco Ramacciotti, colpevole d'omicidio, il quale "ebbe luogo di incignare la ghigliottina nuova." nel 1831 fu giustiziato Pietro Pagano, un girovago napoletano che aveva ucciso e derubato un compagno di viaggio mentre, nel percorrere la strada tra Pisa e Genova, si trovavano nella macchia di Viareggio. Nel 1834 Jona dovette
giustiziare l'autore di un atroce misfatto, Michele Petroni, di Colognora di Valdiroggio. Aveva avvelenato il padre e il fratello, facendo strazio del cadavere di quest'ultimo con una roncola e precipitandolo in un burrone. 
Ma nel 1845, quando fu pronunciata la condanna a morte di ben cinque imputati rei di furti violenti e sacrileghi, il settantaduenne Jona, vista l'età, fu dispensato da quell'incarico. L'uomo, evidentemente molto affezionato al suo lavoro, se ne ebbe talmente a male che rassegnò le dimissioni. A eseguire le cinque decapitazioni con la ghigliottina sistemata sul prato di Porta San Donato fu chiamato il boia di Parma, aiutato da tre figli. Nell'autunno 1846 fu poi assunto Benedetto Paltoni, di Reggio di Modena. L'annessione di Lucca alla Toscana e l'abolizione della pena di morte provocarono l'assalto popolare al carcere di San Giorgio, dove la ghigliottina era conservata. 
"Il 10 ottobre, mentre nel Palazzo Ducale il marchese Rinuccini prendeva possesso di Lucca a nome di Leopoldo II, il popolo percorreva la città gridando "evviva" ed abbattendo gli stemmi borbonici. Uno dei motivi per i quali il Granduca di Toscana meritatamente si acclamava era l'abolizione della pena di morte da lui decretata il 4 ottobre. Al grido popolare di "abbasso la pena di morte", un altro ne seguì: "fuori la guigliottina". A quella parola d'ordine la massa dei dimostranti si precipita verso le carceri di San Giorgio ed esige la consegna della guigliottina e del palco. Sulla piazza si fa un monte di tutti i materiali, poi vi si appicca il fuoco. Mentre il fumo e le fiamme di quella pira si allungano verso il cielo il popolo applaude e le campane di Sant'Anna suonano a stormo. Dirigeva quelle operazioni Don Alisio Giambastiani, un tipo di prete assai strano, temperamento sovreccitabile che terminò la vita in manicomio. Il Giambastiani s'intitolava "cappellano del popolo" ed era sempre l'auriga di ogni dimostrazione popolare. (Cesare Sardi nel volume "Esecuzioni capitali a Lucca nel secolo XIX", stampato dalla tipografia G.Giusti, Lucca 1911). 
Quando le fiamme si spensero rimase intatta solo la lama della ghigliottina ed allora il Giambastiani gridò che ne prendeva consegna in nome del popolo e che ne avrebbe curato la distruzione. Stando al racconto di Cesare Sardi, "nei giorni che seguirono il Giambastiani andò con alcuni amici a Viareggio portando seco la lama della guigliottina. Noleggiata una barca prese il largo e gittò quella lama negli abissi del mare". 
Pare che il boia Paltoni, rimasto senza stipendio, si dedicasse a fabbricare e vendere certi impiastri di erbe, che venivano utilizzati nientemeno che per curare il mal di testa...
  
Torno al presente. I miei vigili discutono di degrado urbano e di contrasto all'evasione fiscale...tutt'altra storia... per fortuna.

Link alla notizia dell'iniziativa     

giovedì 8 maggio 2014

Storie di altri passeggeri



Per lavoro sono entrata in contatto con l' ONDS, Osservatorio nazionale sul disagio e la solidarietà nelle Stazioni italiane, che affronta il fenomeno dell'emarginazione sociale e delle povertà estreme nelle aree ferroviarie. L'ONDS, con la cooperativa sociale Europeconsulting, si occupa, tra l’altro, dell'Help Center presente al binario 1 della Stazione Roma Termini, del Centro Diurno “Binario 95” presente nella medesima Stazione, e del giornale “Shaker  - pensieri senza dimora” che ha recentemente curato e dato alle stampe “Storie di altri passeggeri”, una interessante raccolta di interviste. Interviste a
chi? Personaggi famosi, vip, calciatori, veline? Ovviamente, no, niente di tutto questo. Gli intervistati sono gli esponenti di quella umanità marginale, miserabile e scomoda che gravita attorno alle stazioni; nello specifico, che gravita attorno alla stazione di Roma Termini. Sono pendolare e il treno lo prendo tutti i giorni, due volte al giorno; per lavoro mi capita spesso di spostarmi in treno in altre città, toscane e non toscane, e quindi di stazioni ne vedo e ne frequento tante, e spesso. Di conseguenza, ho ben presente di cosa si parli. O meglio, conosco per esperienza diretta gli aspetti esteriori del fenomeno; che, se devo basarmi sulla mia personale percezione, mi pare aumentato in questi ultimi anni, con la presenza di tanti stranieri tra cui molti giovani. Nelle stazioni di Firenze, che frequento in assoluto di più, col tempo ho individuato anche alcune di queste persone che evidentemente sono diventate stanziali e che, per così dire, fanno ormai parte del paesaggio. C’è in particolare un uomo che incontro immancabilmente ogni volta che transito per Santa Maria Novella, e che mi ha sempre incuriosito. Pur essendo senza ombra di dubbio un homeless, deve essersi in qualche modo organizzato; non l’ho mai visto elemosinare, né vagare frastornato con bottiglie in mano, e, pur nell’evidente abbigliamento di recupero, è a suo modo sempre in ordine. Deve essere un frequentatore attento e organizzato dei vari servizi assistenziali e caritativi. Se mi è capitato qualche volta di vederlo sofferente, sudato e sporco, è stato soltanto in estate, forse perché in quel periodo i servizi funzionano peggio, o forse perché, più semplicemente, è una stagione che ama di meno.  Anche gli homeless avranno i loro gusti…
Mi sono chiesta spessissimo che storia ci sia dietro quell’uomo, quell’homeless, quel barbone. Ecco che le interviste raccolte in “Storie di altri passeggeri” rispondono in qualche modo, per quanto indirettamente, alla mia curiosità.
Si tratta di storie comuni, a tratti banali, che a un certo punto hanno più o meno bruscamente sterzato in quella terra di nessuno che è il vivere per strada. Che si è presentata, tutt’a un tratto, come l’unica alternativa possibile.
Non possiamo sempre affermare che si tratti di persone “come noi”, per dirla banalmente. In alcuni soggetti i caratteri sono decisamente sopra le righe, le vicende non sono propriamente di quelle che capitano a tutti, certo c’è modo e modo di reagire agli imprevisti della vita e non è detto che le difficoltà riducano sempre, matematicamente, per strada… però, talvolta, quando le circostanze, le concomitanze, le congiunture… Insomma è come se ciascuno di questi personaggi ci guardasse negli occhi, facesse spallucce e dicesse: “E’ andata così…”
Certo che da queste pagine emergono ritratti molto vividi; in questo, sì, si
tratta di persone assolutamente come noi, con il proprio bagaglio di esperienze e ricordi, con la propria personalità, le proprie sensibilità, antipatie e simpatie, desideri e speranze. Alessandro Radicchi, curatore del volume, intelligentemente non chiede agli homeless soltanto di raccontare la loro storia, ma li fa parlare anche di altro; sentimenti, ideali, progetti, sogni, restituendo loro quella dignità di persone che lo stare per strada rischia di far loro perdere. Non si può restare indifferenti di fronte a questi personaggi, e mi è tornato in mente un passo di un libro di Natalia Ginzburg che ho letto anni fa, “Caro Michele”, pubblicato nel 1973.  La voce narrante si rivolge a Mara, una giovane scombinatissima ragazza madre, dicendole: “Così penso che cercheremo ogni tanto di mandarti dei soldi. Non è che i soldi ti risolvano niente essendo tu sola, sbandata, vagabonda e balorda. Ma ognuno di noi è sbandato e balordo in una zona di sé e qualche volta fortemente attratto dal vagabondare e dal respirare niente altro che la propria solitudine, e allora in questa zona ognuno di noi può trasferirsi per capirti.”
Finisco la lettura delle interviste con la sensazione di aver imparato qualcosa; che nella zona in cui io stessa sono un po’ vagabonda e balorda abitano gli “altri passeggeri” incontrati da Radicchi… e che non mi è difficile entrare in sintonia con loro, che in fondo condividono con me molto di più di quanto la mia vita normale e “borghese” potrebbe far sospettare. Come se a loro fosse toccata in sorte quella parte rovesciata di vita che non è toccata a me, per una diversa alchimia e combinazione delle variabili ambientali e caratteriali.
E non mi spiace pensare che quell’homeless della stazione di Firenze si sia accorto di me, e che mi osservi così come io osservo lui, notando il mio arrivo e pensando:
“Rieccola!”
Magari si chiederà se mi piacciono davvero i miei vestiti e le mie scarpe almeno apparentemente così scomode, cosa ci sarà mai nella pesante borsa portadocumenti che pende dalla mia mano sinistra, come mai ho spesso quell’espressione tirata sul viso e se tutti gli impegni che mi aspettano nella giornata siano di mio gradimento; probabilmente non mi invidia, e chissà che qualche volta non gli scappi addirittura un “Poveretta!”. 


Storie di altri passeggeri, a cura di Alessandro Radicchi, ec edizioni, Roma 2014. Il ricavato del libro è interamente devoluto a progetti di inserimento sociale delle persone emarginate nella stazione di Roma Termini. per l'acquisto e maggiori informazioni:


www.shaker.roma.it

  

lunedì 27 gennaio 2014

Festival del Giallo di Pistoia - 2014



Partecipo, quest’anno, alla quarta edizione del Festival del Giallo che si svolgerà a Pistoia dal 31 gennaio al 2 febbraio. Tema del Festival: Gocce scarlatte sul giallo. Storie di passioni, di tradimenti, di delitti, di amori maledetti. E il mio intervento, manco a dirlo, riguarderà il mondo del melodramma, che di passioni, tradimenti e delitti trabocca decisamente…
Opera buffa a parte, nelle opere i cadaveri abbondano; spesso alla fine della serata se ne contano più d’uno. E a parte l’esito “luttuoso” delle storie, spesso intricate, a base di scambi di persone, inseguimenti e raggiri, le trame del melodramma trasudano di passioni straordinarie e violente, cui i personaggi si abbandonano fino alle estreme conseguenze. “Io seguo il mio destino”, canta soavemente Cio cio san poco prima di diventare Madama Butterfly; la sua storia non è particolarmente intricata – anzi la trama dell’opera è di una linearità esemplare – però la sua enunciazione potrebbe davvero essere adottata come sintesi riassuntiva dell’agire di tanti personaggi del melodramma, se non di tutti. E la parola “destino” rimanda immediatamente ad una delle opere più rocambolesche della produzione
verdiana, “La forza del destino”, appunto, in cui il motore della vicenda è rappresentato da un fatto insolito: un colpo d’arma da fuoco partito accidentalmente! A Don Alvaro, discendente della stirpe reale degli Incas, fidanzato di Leonora, parte per caso un colpo di pistola, che colpisce a morte il marchese di Calatrava, padre dell’amata! Don Carlo, figlio del morto e fratello della ragazza, giura vendetta e insegue Don Alvaro e la sorella per ogni dove, ma dopo tutta una serie di ricerche, travestimenti, imboscate e peripezie, nello scontro decisivo con l’uccisore di suo padre ha la peggio. Prima di esalare l’ultimo respiro si toglie però la soddisfazione di ammazzare la sorella privandola così della possibilità di godersi finalmente il suo bel fidanzato meticcio. Tre morti su quattro personaggi, un bilancio niente male…Bilancio altrettanto sanguinoso per Tosca, opera pucciniana che tra l’ altro è al centro delle vicende gialle del mio romanzo “Ma per fortuna è una notte di luna – trilogia pucciniana con delitto”, per il quale, appunto, sono stata invitata a questo Festival. In Tosca, quattro sono i morti che si contano
alla fine dell’opera, tre protagonisti (su tre) e un comprimario. Queste le vittime, in ordine di sparizione: Angelotti; Scarpia; Mario Cavaradossi; Tosca. Senza dubbio la morte più spettacolare è quella di Cavaradossi, che, come si sa, pensa di essere sottoposto ad una falsa fucilazione. Ma il perfido capo della Polizia, Scarpia, appunto, che giace già cadavere per mano di Tosca, aveva dato ordine ai suoi uomini che la fucilazione fosse vera più del vero, altro che simulata. E così il povero Cavaradossi va tranquillo incontro a quella che crede una recita e si ritrova nientemeno che nell’aldilà, con Tosca che intanto strepita  per il tradimento atroce subito da Scarpia e che per risolvere definitivamente la questione si getta dai bastioni di castel Sant’Angelo, sperando di raggiungere quanto prima il suo Mario, nell’aldilà, appunto... nel mio romanzo ho immaginato che la finzione si trasformi in realtà, e che il tenore interprete del pittore Mario Cavaradossi cada realmente ucciso dalla scarica del plotone d’esecuzione, tutto composto da ignare comparse…ma saranno davvero ignare? Chi ha esploso il colpo fatale? Chi ha caricato sul serio i fucili generalmente caricati a salve? Ma questa, rispetto alla Tosca di Puccini, è un’altra storia…
Così come è un’altra storia quella di Rigoletto, che quanto ad atmosfere noir non ha nulla da invidiare ai granguignoleschi intrighi di certa letteratura (e d’altra parte il soggetto del Rigoletto è tratto da Hugo). La storia si svolge a Mantova, città brumosa dalle atmosfere rarefatte; il Duca, quello per cui “Questa o quella ecc ecc”, quello per cui “La donna è mobile ecc ecc”, insomma il libertino dell’opera per antonomasia (anche Don Giovanni è libertino, a dire il vero, e le ama tutte, purché portino la gonnella; ma come personaggio è più fine; il suo libertinaggio è più elegante di quello del Duca di Mantova. Ma è un parere personale), insomma il Duca si è finto povero studente e ha fatto innamorare si sé l’ignara Gilda, figlia del buffone di corte Rigoletto; i cortigiani, volendo giocare un perfido tiro a quest’ultimo, rapiscono Gilda credendola la sua amante, e la consegnano dritta dritta nelle mani del Duca. Il quale, ovviamente, approfitta delle circostanze. Rigoletto, divorato dalla sete di vendetta,  si rivolge al sicario Sparafucile (che nome! felicissima intuizione!) che, aiutato dalla sorella meretrice Maddalena, in una notte di tempesta attira nella sua locanda il Duca per farlo fuori. Ma, ma, ma… Maddalena convince suo fratello a non uccidere il Duca che è giovane e bello e ha conquistato anche lei… gli propone di uccidere al suo posto il primo viandante che bussi alla loro porta… Gilda si traveste da viandante, bussa alla loro porta… e il gioco è fatto! Quando Rigoletto si rivolge a Sparafucile perché gli consegni il cavadere del Duca, nel sacco che il sicario gli dà non c’è affatto quel che Rigoletto si aspetta, ma c’è sua figlia, agonizzante… che muore così sulle rive del Mincio, tra le braccia di suo padre, in una notte di tempesta… più noir di così…
E quante altre trame truculente caratterizzano le opere, dalle più famose alle meno popolari…
Nel Tabarro, Michele uccide l’amante della moglie e ne nasconde il cadavere nel proprio mantello, avvolgendovi poi anche l’ignara consorte, che si troverà faccia a faccia col morto…nei Pagliacci, opera ambientata nel mondo dei
saltimbanchi, Canio, che ha scoperto che la moglie Nedda lo tradisce, nel corso di uno spettacolo smette di recitare e inizia a incalzare sul serio la moglie per scoprire il nome dell’amante, e travolto dall’ira la uccide davvero, sul palcoscenico, per poi uccidere anche l’amante accorso per soccorrere la donna; “La commedia è finita”, chiude laconicamente l’assassino, rivolto al pubblico terrorizzato. E vogliamo parlare di “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Sostakovic, che uccide il suocero mettendo veleno per topi nei funghi che gli ha cucinato per cena e poi, aiutata dall’amante, uccide anche il marito e ne nasconde il cadavere in cantina…   
Insomma… come dire? Nell’opera lirica non si muore soltanto di tisi…