martedì 30 aprile 2013

I parassiti



La mia migliore amica Simonetta nutre un’autentica passione per Daphne Du Maurier, scrittrice inglese nota soprattutto per il romanzo “Rebecca la prima moglie” e per il racconto “Gli uccelli”, da cui Hitchcock trasse memorabili film. Tanti anni fa, alla vigilia di un mio viaggio in Cornovaglia, Simonetta mi prestò il romanzo “La casa sull’estuario”, che appunto in Cornovaglia fu scritto ed è ambientato. Il caso volle che mi trovassi ad alloggiare per qualche notte proprio nella casa di Fowey che aveva ospitato la Du Maurier durante la stesura di quel romanzo; questa circostanza mi sembrò piuttosto inquietante. A distanza di tanti anni, di quella casa ricordo soltanto il bagno, di dimensioni assolutamente insolite; una stanza enorme e luminosa, dal pavimento giallo chiaro,  in cui la parete occupata dai sanitari era fronteggiata da un vezzoso salottino con poltroncine e tavolinetto di bambù. 
Per il mio ultimo compleanno Simonetta mi ha regalato “I parassiti”, scritto dalla Du Maurier  nel 1949. Il volume ha stazionato per diversi mesi sul mio comodino  prima che mi decidessi a leggerlo, forse scoraggiata dalla mole; 345 pagine non sono uno scherzo. Una volta iniziato, però, l’ho terminato in fretta. Volendo riassumere in estrema sintesi e con formule di rito il perché questo romanzo mi è piaciuto, potrei dire che la scrittura è scorrevole, la trama è avvincente e i personaggi sono ben tratteggiati. Si sente che l’autrice descrive un mondo che conosce bene, quello del teatro; la Du Maurier proveniva da una famiglia di impresari teatrali e attori, ed è appunto tra camerini, palchi e platee che crescono i tre fratelli Delaney, Maria, Niall e Celia, “variamente” figli di Mamma e Papà Delaney, l’una famosissima danzatrice, l’altro famosissimo cantante. “Variamente”, poiché ciascuno di loro è frutto di una diversa combinazione relazionale. Maria è la figlia che Papà ha avuto da una giovane attrice viennese, Niall è il figlio che Mamma ha avuto da un pianista francese. Celia è la figlia che Papà e Mamma hanno avuto insieme. I tre crescono nell’Europa tra le due guerre mondiali, sballottati tra una tournée e l’altra dei famosi genitori, e sono pestiferi, solidali e insopportabili. Maria e Niall mettono a frutto il talento che hanno ereditato, e diventano lei una famosa attrice, lui un famoso compositore di canzonette; Celia, schiacciata dal senso del dovere, per quanto dotatissima disegnatrice, preferisce dedicare la sua vita all’accudimento di Papà, rimasto precocemente solo a seguito della tragica morte di Mamma. Maria sposa Charles Wyndham, giovane rampollo della nobiltà campagnola inglese, e lo sposa non tanto per amore, ma perché affascinata dalla possibilità di recitare la parte dell’onorevole signora Wyndham. 
Ed è Charles, molti anni dopo, a rivolgersi ai tre fratelli chiamandoli “parassiti”; i tre sono ormai adulti, anche Papà è morto, e tutti i fine settimana si ritrovano nella casa di campagna di Maria, continuando ad alimentare il loro sodalizio fraterno e ambiguo. Ecco le accuse di Charles: “Siete due volte, tre volte parassiti; primo, perché avete sempre approfittato fin dall’infanzia di quel pizzico di talento che avete avuto la fortuna di ereditare dai vostri fantastici antenati; secondo, perché nessuno di voi ha mai lavorato in modo semplice e onesto in tutta la sua vita, ma vi siete limitati a ingrassare a spese del popolo bue che vi consente di campare; terzo, perché siete l’uno il parassita dell’altro, e vivete in un mondo di fantasia che vi siete creati e che non ha alcun rapporto con la realtà, né in cielo né in terra.” Interessante esemplificazione del modo sprezzante con cui certa ottusa borghesia considera il mestiere e la vita dell’artista.
Charles vede i tre fratelli dall’esterno, ma la narrazione è in genere  condotta dal loro punto di vista e non presenta quindi i tratti dell’oggettività che ci permetterebbe di capire fino in fondo quanto questi personaggi siano negativi, quanto i loro comportamenti siano sinceri o dettati da intenzioni particolari. Difficile, alla fine, giudicarli, difficile capire se ci piacciono o no, se li capiamo o no. Niall e Maria sono, forse, amanti. Di sicuro sono legatissimi tra loro, chiusi in una diade strettissima e impenetrabile, in cui a tratti soltanto Celia sembra in grado di avere accesso. 
Al di là della trama e della riuscita generale del romanzo, mi piace soffermarmi su un capitolo che ho trovato davvero esilarante e che non mi sarei aspettata da una scrittrice come la Du Maurier; un punto del romanzo in cui la narrazione è francamente leggerissima e divertita, ironica e bozzettistica.
I Delaney si recano in visita ai Wyndham, nella loro tenuta di Coldhammer, poco dopo il matrimonio di Charles e Maria.
Oltre a Papà, Niall e Celia fa parte del gruppo di ospiti anche Freada, una eccentrica francese con cui Niall ha una relazione per quanto la donna sia di molti anni più anziana di lui, tanto da poter essere scambiata per sua madre. 
Il viaggio nasce subito sotto una cattiva stella: Papà prepara un bagaglio eccessivo, portando addirittura una valigia piena di medicinali, un bastone di malacca, una camicia hawaiana, sandali intrecciati, un volume di opere di Shakespeare e una edizione integrale del Decameron, e rilasciando una memorabile dichiarazione: “Quando faccio le valigie le faccio per l’eternità.”
Freada, al contrario, porta troppo poco. “I suoi averi erano involtati nella carta, e aveva a tracolla una borsa, genere postino, che conteneva un abito da sera.(…) Aveva esagerato con il vestito. Il lungo abito di seta nera era a righe, e così pareva ancora più alta. (…) Il parrucchiere aveva fatto un pessimo lavoro. L’uomo ci era andato giù pesante con lo schiarente, e adesso la testa era troppo gialla. Niall non fiatò, ma Freada capì. “Ecco perché mi tocca tenere il cappello.” “E cosa farai stasera” chiese Niall “Quando andremo a cena?” “Del tulle” tagliò corto Freada. “me lo avvolgerò attorno alla testa, a Lady Wyndham dirò che è l’ultima moda parigina”.
Durante il viaggio, Papà tiene sulle ginocchia una mappa sterminata che non riporta nessuna delle strade principali, ma in compenso riporta uno per uno i sentierini più infimi della campagna di Coldhammer. Per le settanta miglia del viaggio Papà non fa che contestare l’autista nella scelta del percorso, per niente turbato dal fatto che la sua mappa risalga al diciottesimo secolo.
Agli ospiti è stato chiesto di arrivare in tempo per il pranzo, all’una e un quarto; ma per colpa della mappa del diciottesimo secolo, la comitiva giunge a destinazione alle due passate.
L’automobile compie un semicerchio e si ferma davanti all’ingresso principale. Ci sono un po’ troppi cani, di tutte le razze. Papà esce dall’auto disseminando per terra stuoie, cuscini, bastoni da passeggio, opere di Shakespeare, mentre i cani abbaiano all’impazzata.
Mentre Freada scende dall’auto, il tacco le rimane impigliato e cade lunga distesa ai piedi del valletto incaricato di accogliere gli ospiti, con le braccia spalancate come in un tuffo a volo d’angelo. “Notevole” dice Papà. “Vorrei un bis”.
La giornata trascorre tra imbarazzi di vario genere, con Lord Wyndham costantemente impegnato a controllare l’ora, Papà che da un certo momento in poi inizia ad aver bisogno di “uno stimolante” (è stata portata la fiaschetta delle grandi emergenze,  ma non si deve intaccarla troppo presto), Niall che muore dalla voglia di fumarsi una sigaretta in santa pace e Freada che non trova più la borsa da postino. Quest’ultima dice:
“Ho voglia di farmi un bagno. Ho una stanza da bagno incredibile, con uno scalino accanto alla vasca.” (naturalmente ho pensato alla stanza da bagno della casa di Fowey!) La donna spedisce Niall alla ricerca della sua borsa e nel frattempo si concede un bagno; e il ragazzo trova il piccolo bagaglio, in un cantuccio, accanto alle sacche di mazze da golf.
Freada apre i rubinetti dell’acqua calda e fredda, facendoli scrosciare come fontane. “La stanza da bagno di Freada era piena di vapore. Lei era in piedi nella vasca e cantava a squarciagola, insaponandosi. Alla vista della borsa da postino lanciò un urlo di trionfo”.
Nessuno dei Delaney è puntuale, a cena. L’ultima ad entrare in sala da pranzo è Freada, trattenuta a lungo dalle complicate operazioni di sistemazione del tulle intorno alla testa. “L’effetto era un po’ sconcertante. Sembrava di essere catapultati nell’antico Egitto. Lord Wyndham non appena lei arrivò tirò fuori di scatto l’orologio. “Sono le otto, ventitrè minuti e  trenta secondi” brontolò.”
Papà, lievemente ubriaco per aver attinto alla fiaschetta delle grandi emergenze, non trova di meglio da fare che comunicare al padrone di casa che il suo champagne sa di tappo. Dopo cena, Niall percorre il corridoio verso la sua stanza e si imbatte in Lady  Wyndham che traffica con due cameriere armate di secchi e strofinacci.
“Sua madre ha lasciato aperti i rubinetti del bagno. L’acqua è traboccata e sta piovendo nella biblioteca al piano di sotto.”
Niall non riesce a dormire. Alle tre del mattino ode uno schianto in corridoio e si affaccia alla porta. Nemmeno Papà riusciva a dormire, disturbato dall’orologio che Lord Wyndham aveva piazzato sulle scale. Aveva tentato di fermarlo tirando indietro a forza le lancette, e ora la lastra di cristallo giaceva in frantumi ai suoi piedi.
Con questa memorabile scena termina il capitolo 16, una inaspettata parentesi comica e ironica nel corso di una narrazione che indaga complicati rapporti familiari tra personaggi poco piacevoli con cui è difficile simpatizzare. Più ci penso, più sembra un capitolo tratto da un altro romanzo, un divertissement che l’autrice si è voluta concedere forse per smorzare la tensione accumulata negli altri capitoli. O forse soltanto per riposarsi un po’. 

sabato 13 aprile 2013

La mia opera preferita / 1 "scelta con la testa"


Non ho mai avuto dubbi nell’indicare in Turandot la mia opera preferita. Fin dai primi ascolti, da ragazzina, in una incisione in vinile che circolava per casa – con la Callas – o in un VHS che aveva per protagonista l’impressionante Dimitrova – la principessa di gelo mi conquistò. Quando poi l’ascoltai dal vivo, per la prima volta, nell’estate del 1988, a Torre del Lago, protagonista Olivia Stapp, fu siglato un patto d’amore imperituro tra me e la divina principessa. E si è sempre trattato di un amore incondizionato per lei, la protagonista: tutti gli altri personaggi mi dicono poco, o nulla. Antipatico Calaf, melensa Liù, semplici macchiette le tre maschere, lamentoso l’Imperatore, vecchio tremebondo Timur. Su questa pletora di personaggi di mezzatacca, Turandot s’impone altera e inarrivabile, per statura morale e politica; ferma nella sua volontà di vendetta della ava Lou-Ling, violentata e uccisa da un principe straniero, ella riscatta tutte le donne in vario modo stuprate in tutte le epoche dall’eterno straniero, dal maschio, sovrano e tiranno delle esistenze femminili. E lo fa senza esitazioni, in base a un ferreo principio, un principio addirittura cristallizzato in una legge, che, come ben sa il popolo di Pechino, è questa:

Turandot, la pura, sposa sarà
di chi di sangue regio
spieghi i tre enigmi
ch’ella proporrà
ma chi affronta il cimento e vinto resta
porga alla scure la superba testa.

Non ci sono attenuanti, mezze misure, giustificazioni, considerazioni. Sbagli? Ti decapito. L’uomo fallisce la prova e Turandot ordina al boia di affilare la scure; e questo è tutto.
Turandot è cattiva? No, è coerente; e poi, in fondo, si limita ad applicare una norma, agisce secondo diritto. Tutti conoscono la legge che vige a Pechino, tutti sanno che Turandot è inflessibile nell’applicarla; quindi i prìncipi che si sottopongono alla prova dei tre enigmi sono pienamente consapevoli di che cosa li aspetti se falliscono. Eppure, ci provano lo stesso, pur sapendo che gli indovinelli sono di una tale difficoltà che le loro probabilità di successo sono ridotte al minimo; pensano di riuscire a sfangarla in qualche modo, con la tipica protervia maschile che fa loro pensare di essere in grado di superare qualunque prova, soprattutto se di mezzo c’è una donna, con la quale l’hanno avuta vinta dalla notte dei secoli.
Leporello, nel Don Giovanni di Mozart, nel celeberrimo catalogo “delle belle che amò il padron mio” elenca le conquiste amorose del burlador di Siviglia, che ammontano a più di duemila unità. E Ping, Pong e Pang, i tre ministri imperiali, elencano il numero di prìncipi caduti sotto la scure del boia di Turandot: l’anno del Topo furon sei, l’anno del Cane furon otto, e nell’anno in corso, il terribile anno della Tigre, siamo già al tredicesimo con questo che va sotto! Ventisette in tutto, non male se si pensa che la ragazza è comunque giovane, io la immagino non più che ventenne. Certo ventisette teste mozzate sono niente in confronto ai duemila cuori infranti da Don Giovanni; ma il gap è colmato dalla considerazione che i cuori infranti forse si potranno, un giorno, rimarginare, non così le teste recise, rotolate via dal corpo dei loro padroni, per sempre estromessi  dall’esperienza della vita.
Turandot, quindi, assurge al ruolo di riscattatrice delle migliaia di donne sedotte e abbandonate dai Don Giovanni di tutti i tempi. Per questo si è guadagnata la mia predilezione, perché è una donna  anomala tra tutte quelle che incontriamo nel variegato mondo del teatro d’opera;  una donna di potere, che non piange e si dispera per amore, ma pensa a governare con mano inflessibile il suo regno senza lasciarsi distrarre da faccende di cuore e risolvendo in modo assai razionale la questione dei pretendenti che via via le si parano dinanzi. Turandot è bellissima, algida, inarrivabile, e dall’alto del suo  trono fa quel che può per vendicare la memoria dell’ava che ha avuto un destino così infelice:

Pure nel tempo che ciascun ricorda
fu sgomento, terrore e rombo d’armi
il regno vinto!
E Lou- Ling, la mia ava, trascinata
da un uomo come te,
come te straniero
là nella notte atroce
dove si spense la sua fresca voce

E la voce di Turandot non è fresca, a dispetto della sua giovane età il personaggio ha una vocalità il più possibile  lontana dal bamboleggiante cinguettio delle donne innamorate protagoniste delle opere e sue colleghe; la sua voce svetta in acuto scura come un grumo di sangue e tagliente come una lama, quasi per tranciare non solo quelle teste che poi finiranno realmente mozzate dalla scure del boia, ma anche quelle di tutti gli ascoltatori.

Come ognun sa, Puccini non ha portato a termine la sua ultima opera, stendendola soltanto fino al suicidio di Liù, personaggio che rappresenta l’esatto opposto di Turandot: umile schiava, votata al sacrificio, innamorata di Calaf “perché un dì, nella reggia, m’hai sorriso”, e per quel sorriso disposta a tutto, anche a morire per salvare la vita di quel principe, innamorato perso di un’altra. Insomma la più completa personificazione della tradizionale donna remissiva, che trova il modo di riscattare la propria modesta condizione personale soltanto immolandosi sull’altare del sacrificio supremo, quello del morire per un uomo. Puccini è morto mentre si attardava a trovare un finale convincente per la sua Turandot; si dibatte del perché stentasse tanto a concludere l’opera. In effetti, rendere in modo plausibile il voltafaccia di Turandot, che dopo due atti di slogan iperfemministi cede a Calaf soltanto perché egli la bacia, appare impresa assai ardua. In pratica si tratta di sancire il primato del richiamo del corpo e della sessualità sulla ragione e sull’adesione ai princìpi ideali. Ha un bel vociare Turandot, al momento in cui un uomo l’abbraccia e la possiede non è capace, persino lei, di sottrarsi al destino che evidentemente pare accomunare tutte le donne, anche quelle che, come lei, hanno provato seriamente a sottrarvisi.
Ma Puccini non era convinto di questo finale,  e gli girava attorno, indeciso. Per la prima volta aveva dato voce a una donna dalla personalità unica, così lontana dagli stereotipi, e forse avrebbe preferito, in nome della coerenza e dell’amore che sicuramente portava per quella sua ultima eroina, regalarle una fine meno ingloriosa del prevedibile matrimonio con Calaf, che, solito uomo furbone, in un colpo solo si sposa e diventa Re, e sicuramente provvederà quanto prima a ingravidare più e più volte  la sua sposa, mettendo a repentaglio la divina bellezza del suo fisico e distogliendola per sempre dagli affari di governo. Mi piace pensare che Puccini, al di là del libretto, che a quel punto era già scritto, accarezzasse l’idea di far decapitare dal boia pure Calaf,  prevedendo per la sua principessa di gelo un regno sempiterno, dispotico e asessuato, in cui i prìncipi continuassero a sottoporsi agli enigmi senza risolverli, mentre Turandot dall’alto degli spalti del palazzo reale continuasse a gridare per l’eternità, fiera e inarrivabile, “No, mai nessun m’avrà.”


Ghena Dimitrova canta "In questa reggia" - La scala 1983

giovedì 4 aprile 2013

Liebster award






Il mio blog “Bevendo caffè” ha vinto un premio virtuale… il “Liebster Award”, che mi è stato assegnato "per l'originalità e la fantasia" da Luca Taddei, curatore di questo vivacissimo blog:

 teino62.blogspot.com

Prima di tutto, dunque, GRAZIE LUCA … per questo premio che mi inorgoglisce, e non poco!
Il “Liebster Award” è stato ideato due anni fa in Germania, per sostenere i blog meritevoli con meno di 200 followers. Rammenta un po’ una catena di Sant'Antonio…, ma solo un po’. In realtà, è un ottimo modo per allargare la proprie conoscenze "blogghistiche"!
Il premio ha una serie di regole, che io, da blogger scrupolosa, seguirò una per una.

Eccole qua:
1 chi riceve il premio deve "ringraziare" chi gliel'ha assegnato citandolo nel post (in pratica, scrivete un post dove, assegnando i premi, citate chi ve lo ha assegnato);
2 rispondere alle undici domande poste dal blog che ti ha premiato;
3 scrivere undici cose su di te;
4 premiare undici blog che hanno meno di 200 followers;
5 formulare altre undici domande, a cui gli altri blogger dovranno rispondere;
6 informare i blogger del premio.
Alla prima disposizione ho già ottemperato, ringraziando pubblicamente Luca Taddei, proprio in apertura di questo post.
Ecco che applico la seconda regola, rispondendo alle domande (bizzarre) che Luca mi ha posto… undici domande… tante! Ma adoro le domande, e soprattutto adoro rispondere, mentendo spudoratamente, s’intende. Ed eccole qua, domande e risposte:

1. Quanti libri leggi in un anno?
Assai meno di quelli che vorrei. In realtà, molti li inizio, senza finirli… è che non tutti i libri riescono ad appassionarmi, perché non tutti i libri sono meritevoli. Ebbene sì, sono una lettrice assai snob. In media, comunque, in un anno ne porto a termine una ventina.
2. Cosa daresti per vincere lo Strega?
Tutto, ma non il mio Breil.
3. Ed un Campiello?
Beh per il Campiello darei anche il mio Breil. Sempre che basti.
4. Ti propongono una rubrica sul Corsera, che fai?
Accetto e rilancio, proponendone due: una Posta del Cuore per adulteri tormentati e pentiti, e una Posta del Cuore per adulteri recidivi. Ovviamente faccio il tifo per i secondi.
5. Che numero porti di scarpe?
Ne porto due, di solito uguali.
6. Quante volte ti lavi i denti al giorno?
Mai, portando la dentiera. Ogni sera immergo la protesi in un bicchiere di colluttorio.
7. Piove e sei senza ombrello. Ti bagni o passi tra goccia e goccia?
Mi inzuppo fin nel midollo, essendo dell’opinione che le difficoltà vadano affrontate temerariamente.
8. Estate o inverno?
Estate, assolutamente. Il mio sogno è abitare in paesi con quaranta gradi all’ombra.
9. Mare o montagna?
Mare. Versilia. Il top della vacanza piccolo-borghese.
10. Calcio o fosforo?
Fosforo. Meglio con le ossa a pezzi ma il cervello vispo che solida come una roccia ma completamente rimbambita.
11.  Strada asfaltata o sterrata?
Asfaltata, onde non rovinare i tacchi delle mie decolleté di vernice nera. 

E adesso, le undici cose che mi sento di dire su di me:

1 Sono caffeina-dipendente.
2 Non guardo mai la televisione.
3 Amo sopra ogni altra cosa al mondo ascoltare musica (classica e operistica) a volume altissimo.
4  Il mio sogno (segreto) è scrivere romanzi rosa
5  La mia parola preferita è un aggettivo: ultimo. Adoro i giochi di parole. Ecco l’anagramma del mio nome e cognome: Spettina-cirri
6 Il mio maggior pregio: la leggerezza. Il mio maggior difetto: la leggerezza.
7 Il mio scrittore preferito: Tolstoj
8 Il mio animale preferito: il gatto. Amo il suo spirito indipendente e sornione.
9 Il mio tabù: i piedi. Parlarne, mostrarli, guardare quelli degli altri.
10 Sono una cuoca mediocre, e una pessima pasticcera.
11 Il mio nemico personale, contro il quale inveisco quotidianamente augurandogli le peggiori sventure: Trenitalia   
  
Ed ecco (rullino i tamburi !!!!!!) i blog vincitori da me individuati:

incidentiespaventi.blogspot.it
per la sua poesia finalmente e fintamente poco poetica 

rudr2011.wordpress.com
non proprio aggiornato, ma pieno di strane sorprese

“feedback”
giannozzo.blogspot.it
per l’acume, la sagacia, la coerenza

andantecongusto.blogspot.it
per l’estro narrativo con cui presenta le ricette

Per loro, undici domande (sono curiosissima di leggere le loro risposte!):

1 Il romanzo che avresti voluto scrivere
2 La canzone che avresti voluto comporre e/o cantare
3 L’attrice o l’attore con cui vorresti scappare
4 Il tuo ricordo più lontano
5 E quello più vicino
6 Meglio un uovo oggi o una gallina domani?
7 Fuga dell’anima: il viaggio dei tuoi sogni…
8 Giù dalla torre: Gad Lerner, Enrico Mentana o Michele Santoro? (non tutti e tre e nemmeno due, uno soltanto! A proposito, l’Annunziata l’ho già buttata di sotto io) 
9 Se potessi tornare indietro, a quale scuola superiore ti iscriveresti?
10 Il luogo pubblico che frequenti di più
11 Cosa hai letto di Jane Austen?

E adesso vado ad informare i blogger del premio che ho loro assegnato.

Ecco fatto. Finito. Peccato! Ci avevo preso gusto! Spero di essere premiata di nuovo!