giovedì 15 novembre 2012

Eremo e filosofia / 4

ARIANNA E DIDONE, DONNE MAGNIFICAMENTE LAMENTOSE!


All’Eremo di Montecastello (700 m a picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale con la filosofa Francesca Rigotti : “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa diversa.

Nel corso del nostro seminario, in cui la mitologia classica la fa da padrone e i frequentissimi richiami della docente mi costringono a rapidi ripassi, a un certo punto si cita Arianna, o meglio il suo paradosso; il filo di Arianna è il mezzo grazie al quale Teseo riesce ad uscire dal labirinto, ma in che modo Teseo ripaga il favore che Arianna gli ha reso? La pianta in asso… o, per essere corretti, la pianta “in Nasso”, cioè l’abbandona sull’isola di Nasso. Il comportamento di Teseo simboleggia l’appropriazione da parte dell’uomo di una capacità tradizionalmente femminile, quella legata all’arte di intessere i fili, relegata nell’ambito del concreto, del basso, del quotidiano, e nobilitata dall’espropriazione maschile. Nonostante sia una donna che mette in mano a Teseo il filo per uscire dal labirinto, filo che rappresenta il lògos, alle donne – ed è questo il paradosso -  è stata rifiutata per millenni la prerogativa del pensiero logico.     


Altra donna maltrattata è Didone. Elissa, figlia del re di Tiro, detta Didone o l’errabonda, ottiene dai Libi di avere stanza con i suoi su un terreno tanto grande quanto l’area delimitata da una pelle bovina. E lei cosa fa? Tagliando un’ampia pelle in sottilissime strisce, recinge un’altura che diviene la rocca di Cartagine. Dire che Didone è astuta, è dire poco. Eppure per Enea, eroe troiano spinto da una tempesta sulla riva africana e accolto dai cartaginesi, perde completamente la testa. E quando lui l’abbandona per andare a perseguire le solite imprese eroiche da uomo lei, che pure è Regina e potente, innalza un grande rogo e si dà la morte tra le fiamme.  
Il richiamo a Arianna e Didone, inserito nel più ampio contesto della lezione, si limita a un rapido accenno, ma il mio pensiero resta a lungo ancorato a queste storie di abbandono e di dolore, e mi rendo subito conto che ciò accade perché più che alla mitologia greca o alla storia narrata da Virgilio nell’Eneide in me si risvegliano i ricordi di due delle più belle composizioni musicali antiche che sia dato ascoltare: rispettivamente, il Lamento di Arianna e il Lamento di Didone. Certo il lamento della donna abbandonata è un tòpos musicale archetipico quant’altri mai, ma io non penso tanto alla storia della musica o a questioni di estetica, quanto piuttosto all’impatto emotivo e coinvolgente di queste due somme composizioni. Il Lamento d’Arianna è l’unica pagina che ci è rimasta dell’ opera Arianna di Claudio Monteverdi, che l’ aveva composta nel 1608, dopo l’Orfeo. Tutto il resto dell’opera è andato perduto.  
Lasciatemi morire! canta la povera Arianna, e la immaginiamo su uno scoglio mentre Teseo si allontana sulla sua imbarcazione. Gli uomini, si sa, hanno sempre qualcosa di grande da fare, qualcosa di importante e imponderabile che li costringe a una fuga perenne verso un non ben precisato obiettivo strettamente imparentato col concetto di supremazia, di gloria e di vittoria. E così, Arianna si lamenta, invocando la morte; e tale momento evidentemente a Monteverdi piaceva assai, poiché, qualche anno dopo la messa in scena dell’Arianna, lo musicò anche come madrigale a cinque voci, inserito nel suo sesto libro di madrigali. Anche in questo secondo caso si tratta di una magnifica composizione, forse meno commovente dell’aria affidata alla voce sola, dato appunto il profilo polifonico del madrigale che ne mitiga in parte l’impatto emozionale. Ma, anche in questo caso, che meraviglia!
Il Lamento di Didone chiude l’opera Dido and Aeneas di Henry Purcell, composta nel 1689. Anche in questo caso,  la protagonista si duole dell’essere abbandonata dall’amato. Lo fa con parole e musica così struggenti da mettere a dura prova la capacità di resistenza alla commozione di chiunque. Remember me, canta Didone, but forget my fate. Ricordati di me, ma dimentica il mio destino; giacché ha già preso la suprema decisione di uccidersi. 


Enea, proprio come l’altro fuggitivo, è chiamato ad altre e più importanti imprese; nello specifico, sbarcare in Italia, combattere una quantità di battaglie e dar vita alla discendenza di cui farà parte anche Romolo, fondatore di Roma. Inutile dire che niente e nessuno potrà ancora trattenerlo a Cartagine, nemmeno Didone, per la quale, comunque, si era preso una bella sbandata.
E così i nostri uomini se ne ripartono via mare, mentre le loro donne abbandonate intonano musiche sublimi per esprimere il dolore per quell’addio subìto e non voluto.
Sono due uomini – Monteverdi e Purcell – a mettere in musica quei lamenti interpretando al meglio, e con rara sensibilità, lo sconforto e l’angoscia che da quegli abbandoni alle due donne deriva, riscattando così, almeno in parte, la categoria dei maschi maltrattanti e perennemente in fuga.
Quanto alle donne, Arianna si rifarà una vita, sposando nientemeno che Dioniso, dio del vino e del delirio mistico, con il quale, se non altro, immaginiamo trascorrerà delle belle serate alcoliche; Didone, invece, come già detto non riesce a superare il trauma dell’abbandono, e si uccide.
La loro voce, però, resta incastonata in due superlativi momenti musicali, che ce le consegnano per l’eternità, ferme nella loro dolente immagine di abbandonate in preda allo sconforto e che nello sconforto trovano i loro accenti migliori.
E poiché la musica non va tanto raccontata, quanto ascoltata, ecco i due link ai Lamenti che è sempre bene ascoltare, di quando in quando, per ricordarsi quanta sublime e pura bellezza può esserci nella descrizione del dolore.




sabato 6 ottobre 2012

La donna moderna che beve il caffè...

 ... sono tutta concentrata sul mio secondo romanzo, ma non posso certo dimenticarmi del primo... Ecco una lusinghiera recensione comparsa su Donna Moderna on-line... visibile cliccando  qui  e riportata di seguito: 

La donna che morì bevendo caffè, il primo romanzo di Cristina Preti
  
Si intitola La donna che morì bevendo caffè ed è pubblicato da Eclissi Editrice il libro di Cristina Preti, giovane autrice alle prese con il suo primo romanzo. Che, dobbiamo dire, in breve tempo ha riscosso un notevole successo.
La donna che morì bevendo caffè narra di un giovane che cerca a tutti i costi di svelare la vera identità della madre. Un intrigo avvincente da leggere tutto d'un fiato.
Da tenere d'occhio questa scrittrice che, nonostante sia alla sua prima prova, stupisce per la bellezza e freschezza della sua scrittura, per il soggetto, per la trama, per la sorpresa, per il giallo intrecciato a una storia di ordinaria quotidianità che però nasconde un'insidiosa "doppia realtà".
Riesce a coinvolgere e ammaliare il lettore e a farlo innamorare dei suoi protagonisti. La caratterizzazione dei personaggi, che appaiono vivi e reali agli occhi del lettore, è molto riuscita. Il libro stupisce anche per come  riesce altrettanto bene e spontaneamente a narrare in prima persona,  nonostante il protagonista sia un maschio... Da leggere.
Cristina Preti sembra una scrittrice navigata e invece è appena approdata sulla scrivania di una piccola casa editrice dando ascolto a una passione che covava da sempre.

Cristina Preti
La donna che morì bevendo caffè

Eclissi Editrice
pagine 284
euro 15

lunedì 24 settembre 2012

Eremo e filosofia / 3

VOLPE VERSUS RICCIO, OVVERO L’ENIGMA DI TOLSTOJ

All’Eremo di Montecastello (700 m a picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale con la filosofa Francesca Rigotti : “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa diversa.

“La volpe conosce molte cose, il riccio una sola, ma grande.”
Sul frammento dell’antico poeta greco Archiloco si basa un famoso testo di Isaiah Berlin, che assume l’ immagine come metafora delle differenze che distinguono gli individui e in base al quale, quasi fosse un gioco di società, Berlin provvede a classificare scrittori e pensatori posizionandoli nell’una o nell’altra grande famiglia di spiriti. I ricci riferiscono ogni cosa a una visione centrale, a un sistema coerente governato da regole precise; sono, in buona sostanza, monisti. Le volpi, al contrario, perseguono molti fini, talvolta contraddittori, senza riferirsi ad un unico principio morale o estetico. Il loro pensiero si muove su più piani e coglie una varietà di esperienze e di temi senza che ci sia, alla base, una visione statica. 


Come i ricci sono monisti, così le volpi sono pluraliste. La tentazione monista poggia sull’esigenza di superare la scissione attraverso la ricomposizione del tutto in una totalità pacificata. La concezione del riccio si basa su due convinzioni: primo, che il reale sia unitario e che riunisca in sé tutti i fenomeni (scienza, metafisica, religione ecc.), secondo, che esista una “situazione finale” in grado di conferire una unità a tutti i valori. Sono riconducibi pertanto all’idea monista la teologia, il socialismo, il platonismo, certo illuminismo. Le domande hanno una sola risposta, la strada per giungere alla verità è una soltanto, e tutte le verità parziali concorrono a formare un’unica, grande verità.
E il pluralismo della volpe, invece? La concezione è, evidentemente, opposta:per la volpe non l’unità, ma la pluralità rappresenta l’essenza del mondo, e non esiste situazione finale capace di garantire la soluzione armonica di tutti i problemi e di tutti i conflitti valoriali.
Il monismo è assai più diffuso del pluralismo, e mira alla ricerca di certezze unitarie, in grado di garantire un fondamentale senso di sicurezza. Berlin mette così in relazione monismo e agorafobia, ricerca filosofica dell’unità e ricerca nevrotica di un luogo chiuso e rassicurante.
Il pluralismo, al contrario, risulta spesso da una condizione di conformismo e chiusura intellettuale che genera richieste di maggiori aperture e si traduce in una rottura  con le vecchie fedi e le vecchie istituzioni. 
Berlin addebita al monismo dei ricci la responsabilità politica delle feroci dittature che hanno caratterizzato il XX secolo; in particolare, l’assunto da cui esse sono scaturite, tipico del monismo, è quello che possa esserci una soluzione finale in grado di risolvere tutti i problemi. Berlin è convinto che il nostro tempo non abbia bisogno né di fedi, né di certezze scientifiche, ma di un minor grado di formalismo e di zelo messianico; secondo lui, quindi, i nostri tempi hanno bisogno di scetticismo, sapientemente unito a una buona dose di tolleranza. Berlin preferisce il perfido Talleyrand (sourtout pas trop de zèle) al virtuoso Robespierre, pericolosamente duro e puro nella sua pretesa di uniformità.  
Quanto all’attribuzione all’uno o all’altro gruppo, secondo Berlin hanno agito da ricci Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust, mentre simili alle volpi sono stati Shakespeare, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce, Montaigne.
Il caso più enigmatico risulta essere il mio amatissimo Tolstoj, che “era per natura una volpe, ma credeva fermamente di essere un riccio”.


Secondo Berlin, il dramma di Tolstoj consisterebbe nell’impossibilità di conciliare le sue due diverse anime: quella appassionata del moralista che difende la libertà dell’individuo, il suo impegno etico e civile, e quella distaccata del fatalista che considera con freddo realismo la complessità del divenire storico, le forze che in esso agiscono e lo dominano, secondo percorsi e leggi che spesso limitano la libertà umana e travolgono e vanificano l’ingegno dell’individuo. Tolstoj è quindi lacerato tra senso della realtà storica e ideali morali, “il più grande tra coloro che non sanno né conciliare né lasciare inconciliato il conflitto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere”. Berlin conclude con l’immagine a effetto di un Tolstoj che infine, come Edipo, si acceca, per non vedere ciò che ormai sa, e per continuare a professare quegli ideali morali di cui negli anni della vecchiaia diverrà il più radicale e strenuo difensore. 

Anche noi partecipanti al seminario veniamo invitati a individuare la nostra collocazione nell’una o nell’altra categoria: volpe o riccio? C’è chi si dichiara irreparabilmente volpe, ma grande ammiratore del riccio, e viceversa. Io non posso che considerarmi volpe; tutto in me – la mia storia, le mie predilezioni passate e presenti, le mie abitudini – concorre a definirmi tale. Ma francamente non credo di potermi dichiarare attratta o ammirata dall’essere riccio, dalla  sua capacità di ricondurre ad un principio unico il senso della vita, della storia, delle cose. E’ un criterio che decisamente non mi appartiene. Certo può essere invidiabile, in quanto sicuramente è in grado di garantire, se professato con assoluta convinzione, un senso impagabile di sicurezza e stabilità. Ma io lo percepisco come soffocante e nonostante tutto mi sento di difendere una concezione più dinamica, mutevole e flessibile della storia dell’uomo e del mondo, anche a rischio di una maggiore vulnerabilità e debolezza. Viva le volpi, e viva Tolstoj che di essere riccio “credeva” soltanto.

Isaiah Berlin, Il riccio e la volpe, Adelphi, 1998 


martedì 4 settembre 2012

Lettori in viaggio / 8



martedì 8 novembre 2011

LA SUDAMERICANA

Torno a casa con un treno del primo pomeriggio.
Davanti a me una donna dalla carnagione scura, tipo brasiliano; capelli castani striati di biondo raccolti strettamente sulla nuca, fronte ampia, zigomi larghi, naso pronunciato, pelle del viso con imperfezioni, bocca scolpita e segnata dal rossetto. Indossa un tailleur con gonna corta e attillata di un colore tra il grigio scuro e l’azzurro, ornato di profilature di colore dorato; sul sottogiacca nero a collo alto spicca una collanina d’oro con un ciondolo rotondo, a forma di timone. Niente orecchini. La gonna lascia scoperte le gambe lunghe e robuste, coperte da un paio di calze sullo stesso tono grigio-azzurro del tailleur, a rete lavorata con ampie decorazioni a motivo floreale.
Legge un libro in edizione economica, con la copertina tutta sui toni del giallo e dell’arancio, che riporta il titolo diviso in due nuvolette da fumetto: prima nuvoletta: “Perché mentiamo con gli occhi” seconda nuvoletta: “e ci vergogniamo con i piedi?”. Stringe nella destra una penna, e ogni tanto sottolinea o prende appunti, talvolta sul bordo, mettendo il libro di traverso e sfruttando tutta la lunghezza. A partire da Lastra a Signa fa una serie di sbadigli profondissimi. 

martedì 15 novembre 2011

CON LE DITA NEL NASO

Treno delle 7.16 per Firenze.
Ragazzo giovane, tra i 25 e i 30. Salito a Signa.
Capelli castano chiari, un bomber imbottito con il cappuccio, una sciarpa a quadri sui toni del grigio e dell’azzurro polveroso. Baffetti, barba volutamente malrasata.
Tira fuori dallo zaino un quadernone molto vissuto, con la copertina dai bordi un po’ arricciati e fogli che spuntano tra le pagine. Sembra stia ripassando una lezione. Poi rimette dentro il quadernone, trattiene solo un foglio piegato in due, è una fotocopia. Legge e alza lo sguardo, poi lo riabbassa, sembra ripetere tra sé e sé.
All’improvviso, quando il treno è ormai già ripartito da Firenze Rifredi e gli altri passeggeri si preparano alla discesa a Santa Maria Novella, fulmineamente rimette dentro lo zaino il foglio fotocopiato e tira fuori un libro, “Memorie di un cane giallo”, di O.Henry, in una edizione che non riesco a distinguere, forse Feltrinelli. Nei pochi minuti che mancano alla stazione di fine corsa si mette a leggere, e si infila più volte le dita nel naso.

martedì 7 agosto 2012

La forza delle donne


All’ultimo momento mi sono infilata in una presentazione di libri organizzata il 20 luglio a Viareggio, al Bagno Sorriso, da Demetrio Brandi, con cui l’anno passato avevo effettuato una intervista radiofonica per Radio Massarosa su “La donna che morì bevendo caffè.” Stavolta tocca alla mia seconda creatura: “Ma per fortuna è una notte di luna – Trilogia pucciniana con delitto” fresco fresco di stampa. Il pomeriggio al Bagno Sorriso è dedicato al tema “La forza delle donne” e sono presenti altre tre scrittrici con le loro opere. Questo titolo mi ha messo di buon umore e in viaggio verso Viareggio penso a quanto la tematica femminile, che era centrale nel mio primo romanzo, sia presente nel mio secondo lavoro. Apparentemente, non molto; in “Ma per fortuna è una notte di luna” il primo racconto (atto primo, per essere più precisi) narra i tormenti amorosi del giovane corista Enrico. Al centro del secondo atto, Niccolò Gemignani, direttore d’orchestra, alle prese con la messa in scena di una Butterfly in cui la protagonista è una giovane diva capricciosa. Il terzo atto, infine, ha come personaggio principale il dottor Magro, dirigente del Commissariato di Viareggio, chiamato a investigare sul delitto del tenore Gianmarco Sala. Dove sono le donne? Bè, rifletto che se gli uomini sono “i narratori”, le donne sono “le narrate”… al giovane corista impacciato e pasticcione del primo racconto fa da contraltare la fidanzata Silvana, cantante ai primi passi della carriera, cocciuta e determinata; il Maestro Niccolò Gemignani deve vedersela con una vera e propria diva, il soprano giapponese Noriko Ishikawa, che gli darà filo da torcere; nel terzo, infine, cosa mai farebbe il dottor Magro senza la sua collaboratrice preferita, il commissario Ilaria Talocchetti? La quale, oltretutto, è in attesa del suo primo figlio e dà il suo fondamentale contributo alle indagini tra una ecografia e l’altra. La forza delle donne, appunto… che è anche al centro delle opere pucciniane che fanno da sfondo ai miei racconti. Mimì. Musetta, Butterfly, Tosca, tutte donne determinate e forti, ciascuna a suo modo, anche a dispetto delle apparenze.
E cosa dire delle mie compagne scrittrici al Bagno Sorriso? Le ascolto mentre parlano dei loro libri.
 Lucilla ha scritto la biografia di sua nonna Maria, definita una “comune eccezionale donna”, corredando il suo libro delle ricette di famiglia; donne e cucina, un binomio inscindibile, non possso fare a meno di pensare, soprattutto se declinato sulle cifre domestiche della cura quotidiana. Accanto a Lucilla siede Simona, che ha scritto un libro di tutt’altro genere; un romanzo che ha per sfondo l’Argentina e in cui la protagonista, Lola, balla con passione selvaggia un tango in coppia con il proprio destino, alla ricerca del fratello desaparecido e della propria realizzazione attraverso l’arte.
Infine, Chiara, autrice di un libro di cui lei stessa è protagonista; ha infatti scritto il toccante romanzo della sua vita, sconvolta dalla scoperta di essere ammalata ma non per questo rassegnata a una triste esistenza fatta di rinunce, anzi. Chiara ha studiato, ha trovato un buon lavoro, si è sposata, fa viaggi avventurosi.
Donne che cucinano e che proteggono, che ballano e si appassionano, che lottano contro il proprio destino, sorrette da una forma peculiare di energia, di determinazione… la forza delle donne, appunto...

Lucilla Gattini, “Antenati e forchette”, Giovane Holden edizioni
Simona Bertocchi, “Lola Suarez”, Giovane Holden edizioni
Chiara Conti, “La vita oltre il destino”, selfpublishing su ilmiolibro.it

lunedì 16 luglio 2012

Il mio nuovo libro!


 Cristina Preti


Trilogia pucciniana con delitto


Eclissi editrice

formato : 14,5 x21
pagg. 352                        
euro 15
ISBN 88-95200-49-1
Atto primo: La vigilia di Natal
Atto secondo: Bimba dagli occhi pieni di malìa
Atto terzo: Attenti agli sbocchi delle scale!

Tre opere liriche, tre storie.

Una giovane e scapigliata, una poetica e tenera, una drammatica e misteriosa, con tanto di omicidio in scena.
Sullo sfondo, una stagione lirica estiva, in un teatro che sorge su un lago e che regala un’emozione unica intrecciando il fascino incantato e immortale della musica a quello eterno della natura.  

Tre storie che forse sono una storia sola, dalla trama sorprendente, in precario equilibrio tra la vita e l’arte. 


Ma per fortuna è una notte di luna – Trilogia pucciniana con delitto si compone di tre racconti ambientati nel mondo del teatro lirico. Ciascun racconto ha per sfondo un’opera di Giacomo Puccini (La Bohème, Madama Butterfly, Tosca) e si svolge nel corso della stagione lirica estiva del Festival Puccini di Torre del Lago (Viareggio).
I tre racconti sono caratterizzati da ispirazioni diverse:  il primo, La vigilia di Natal, ambientato nel corso della messa in scena de La Bohème, narra del mondo vivace ed esuberante dei coristi, degli intrecci amorosi che si allacciano dietro le quinte, dei sogni di gloria dei giovani cantanti, bohémiens dei nostri tempi.
Il secondo, Bimba dagli occhi pieni di malìa, si svolge sullo sfondo di Madama Butterfly e narra il rapporto tra un maturo direttore d’orchestra e una giovane ma già affermata cantante di origine giapponese; un incontro irrisolto, dai profili rarefatti e misteriosi, scandito da tazze di thè e letture di haiku.
L’ultimo racconto, Attenti agli sbocchi delle scale! è un poliziesco; sul palcoscenico del Festival, infatti, nel corso della prima di Tosca il tenore protagonista dell’opera, nella celeberrima scena della fucilazione, cade realmente assassinato. Ecco che il dirigente del Commissariato di Viareggio, dottor Magro, è chiamato a risolvere il caso, proprio lui, che di opera non sa niente e che ha sempre pensato che tutti quegli intrighi amorosi a base di tradimenti, figli spariti, scambiati e ricomparsi, abbandoni clamorosi, riappacificazioni sul letto di morte siano francamente un po’ esagerati.
Salvo dover ammettere, alla fine, che la vita reale è talvolta melodrammatica quanto l’opera lirica…se non di più.

Cristina Preti, nata a Vinci, è laureata in Scienze Politiche e ha conseguito un Master post laurea in Coordinamento delle politiche per la sicurezza urbana. Sue grandi passioni sono, da sempre, il canto e la scrittura. Ha esordito con il romanzo La donna che morì bevendo caffè, edito da Eclissi nel 2011, che si è aggiudicato il Premio Selezione nell’ambito del Premio “Lo scrittore toscano dell’anno”. Con Ma per fortuna è una notte di luna  – Trilogia pucciniana con delitto esprime il suo grande amore per il canto, per Puccini e per il Festival che ne porta il nome, con il quale collabora come corista dal 1999. 

mercoledì 27 giugno 2012

Eremo e filosofia/2


MA QUANTO PESA LA CREATIVITA’

All’Eremo di Montecastello (700 m a picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale con la filosofa Francesca Rigotti : “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa diversa.

Ci sono occupazioni tradizionalmente considerate femminili che, dopo una opportuna trasfigurazione metaforica, vengono depurate dal loro significato materiale e diventano degne del genere maschile. Si tratta di una vera e propria espropriazione delle attività femminili attraverso una purificazione linguistica: attività, concetti, ambiti che per una forma di bonaria misoginia vengono considerati appannaggio femminile nella loro esplicazione realistica, ma possono assurgere alla dimensione maschile una volta spogliati del loro significato immediato e interpretati nella loro accezione simbolica e metaforica. Arti minori che, opportunamente sublimate attraverso la metafora, assurgono al rango di arti maggiori. Eccole qua, sono cinque:

1) - tutto ciò che riguarda i fili e le attività ad essi connesse (filare, tessere).
Le donne, col filo,  cuciono, tessono tele, lavorano a maglia e all’uncinetto. Gli uomini tessono trame politiche e intessono alleanze. Privato del suo aggancio realistico, il filo diventa immagine assai più significativa e importante: camminare sul filo del rasoio, dare del filo da torcere, reggere o tirare le fila. I ragionamenti hanno un filo logico.
2) - tutto ciò che riguarda lo stirare.
Le donne, col ferro da stiro,  stirano i panni. Stirare vuol dire “togliere le pieghe”, e quindi “spiegare”. Cioè, come recita il Devoto-Oli, “appianare una difficoltà di natura intellettuale; chiarire, rendere accessibile alla mente, illustrare”. Siamo passati dall’asse da stiro sistemato in soggiorno all’aula magna dell’Università. 
3) - le attività di cucina.
Tradizionalmente, alle donne è affidata la cucina routiniera, quella di tutti i giorni. Gli uomini invece hanno l’appannaggio della eccezionalità, nella più domestica delle ipotesi si dedicano al barbecue, in quella più mondana sono grandi chef. In senso figurato, poi, cucinare è utilizzato nel linguaggio giornalistico (cucinare un articolo) o per indicare il modo con cui si trattano le persone (cucinare a fuoco lento, per le feste, a puntino…) E non ci soffermiamo sulle innumerevoli metafore di ambiente culinario… sono fritto… cosa bolle in pentola…finire dalla padella nella brace…
4) - tutto quel che attiene il contatto con l’acqua. Le donne, con l’acqua, lavano i pavimenti, i panni, i figli. Gli uomini solcano gli Oceani ed effettuano avventurosi viaggi. Indicativo in questo senso l’incontro tra Ulisse e Nausicaa, avvenuto sulla spiaggia dell’isola dei Feaci: lui, come sappiamo, è nel bel mezzo di una delle tante tappe del suo avventuroso viaggio, lei si è recata con le ancelle a lavare i panni. E linguisticamente? Lavare l’onta, lavare col sangue, lavarsene le mani…
5) - infine, tutto quel che attiene la procreazione: concepimento, parto, allattamento. La capacità generativa non è una competenza che si possa acquisire, pertanto si tratta di un campo ad esclusivo e assoluto dominio femminile, difficilmente espropriabile… Per questo l’espropriazione metaforica deve essere molto, molto più forte. Ed ecco che dalla pro-creatività femminile si passa alla creatività maschile…
…il pensiero è come un grosso gomitolo di filo arrotolato, a tratti strettamente, a tratti in modo più lento, e visivamente è raffigurabile come il groviglio delle meningi nel cervello, del tutto simile, a guardarlo, al groviglio delle viscere. Due diversi tipi di raffigurazione, di cui il primo collegabile alla creatività come un atto etereo e leggero, un parto dell’ingegno, un parto metaforico e quindi indolore, proprio perché ricondotto alla capacità generativa maschile, del tutto astratta e estranea a quella femminile; quest’ultima è fisica e carnale, riconducibile, appunto, al groviglio di viscere.
Il parto maschile produce le idee immortali; le donne, invece, producono gli esseri mortali. E quali sono i tratti caratterizzanti questa diversa idea di creatività, intesa nella sua accezione femminile, legata alla gravidanza  e al parto?

-         è qualcosa che sta vicino alle origini
-         è qualcosa di autentico, non è copia né riproduzione
-         è qualcosa di nuovo, fuori dal comune

Questo diverso modello di creatività, quindi, non è leggerezza, non è l’idea carina che improvvisamente ti si dipana dal cervello. Creatività è gravità, come gravido è il ventre delle donne in attesa. La creatività si realizza attraverso lo sforzo e la fatica che accompagnano la gestazione; e il parto creativo, come il parto fisico, è sgravio, liberazione. 
Creatività è la grazia della pesantezza.   

Francesca Rigotti, Partorire con il corpo e con la mente – Creatività, filosofia, maternità, Bollati Boringhieri 2010

venerdì 15 giugno 2012

Eremo e filosofia/1

PENDOLARE AL QUADRATO

All’Eremo di Montecastello (700 m. a picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale con la filosofa Francesca Rigotti: “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa diversa.

Mi ero ripromessa di prepararmi per questo seminario, leggendo i libri che erano stati consigliati, se non proprio tutti almeno quelli scritti dalla docente. Invece arrivo trafelata al giorno della partenza ed è con soltanto un paio di minuti di anticipo che metto piede sul treno che mi porterà a Brescia; stavo per perderlo.
Questo per dire che quando affrontiamo il primo degli incontri previsti  - La sapienza del pendolo che molte cose conosce oscillando qua e là – non so nemmeno di cosa parleremo; immagino confusamente che il discorso toccherà forse Galileo  e l’isocronia del pendolo, ma oltre non vado.
Invece tutta l’argomentazione prende una piega inaspettata. Il fenomeno del pendolo viene trattato come metafora esperienziale umana; la sapienza del pendolo deriva dal suo sperimentare dimensioni estreme e opposte così come dall’avere un punto di vista alto e inamovibile e uno basso e in costante movimento; si parla di nomadismo, migrazioni, finito e infinito, dell’esperienza che si trasforma in conoscenza, del sapere statico e granitico cui si contrappone un sapere caratterizzato dalla flessibilità.
E via via che la docente parla mi accorgo che – meraviglia delle meraviglie – si parla di me! Si, proprio di me stessa! Nel senso che anche io vivo un modello particolarmente complicato di pendolarismo, che non so come definire e che decido di denominare, per adesso, un pendolarismo misto, con una sua manifestazione interna, e una esterna.
Ch’io sia protagonista di un moto pendolare nessuno può certo negarlo, dato che ormai da anni ogni giorno alle sette del mattino (più o meno) salgo sul treno per recarmi in ufficio, a Firenze, e da lì me ne riparto a orari variabili del pomeriggio (a seconda della durata della mia giornata di lavoro) per tornarmene a casa, a Empoli. In questa specifica raffigurazione di pendolarismo, il punto fermo, il “gancio”, è costituito dal mio datore di lavoro, il filo rappresenta la mia necessità di garantirmi uno stipendio, io, infine, mi identifico nel peso. Come diceva Michelstaedter, “Un peso pende (…), quant’è peso pende e quanto pende dipende”…Più chiaro di così…
Ed ecco che nel mio moto pendolare io mi sposto quotidianamente in due realtà fisiche diverse, e sono anche due persone diverse. Quando mi colloco nella mia città interpreto la mia dimensione di base, quella di Cristina come persona privata, che vive in un determinato contesto familiare e amicale, dedita ad attività inerenti la sfera degli affetti e delle relazioni intime e private. Qui elaboro una conoscenza esperienziale principalmente emotiva e sentimentale, qui mi sento protetta, qui mi rifugio, qui mi riposo.
A Firenze, chiaramente, interpreto un altro personaggio, inserito in una dimensione del tutto pubblica,  quello di me stessa come professionista, al centro di relazioni impostate su altri tipi di presupposti, tutti riconducili, in buona sostanza, all’ambito performativo. Qui mi dedico al lavoro, progetto, elaboro, discuto anche, qui mi sento sempre messa alla prova. Firenze è il luogo del confronto, della sfida, del giudizio.
Sono diversa io e sono diverse le due città che accolgono i miei moti di andata e ritorno: l’una cittadina provinciale dai ritmi sonnacchiosi e privi di scossoni, l’altra città-cartolina dalla storia sfolgorante, crocevia dei fremiti e delle contraddizioni tipiche degli aggregati urbani della contemporaneità.   E dal mix di intrecci tra città, stili e personalità nasce una mia personale forma di elaborazione di conoscenza… la conoscenza pendolare, appunto…
L’altra mia forma di pendolarismo non si esplica in uno spazio esterno, ma interno a me stessa e riguarda una attitudine che, essendo tipica del segno zodiacale cui appartengo, si spiega facilmente, appunto, con riferimento all’oroscopo: essendo nata il 17 giugno, appartengo al segno dei gemelli. Come ognun sa Castore e Polluce, i Dioscuri, figli di Giove e di Leda, pur essendo gemelli differivano in un particolare direi di notevole importanza: a causa di un cervellotico intreccio di quelli che soltanto la mitologia greca sapeva concepire, e che non mi metto a spiegare, Polluce era immortale, Castore, al contrario, mortale. Come tutti i gemelli, i Dioscuri erano affezionatissimi l’uno all’altro e quando, al termine di una loro rocambolesca avventura, Castore fu ferito a morte, il fratello si rivolse implorante al loro padre, Zeus, perché facesse morire anche lui, oppure concedesse l’immortalità anche al gemello morente. Zeus esaudì a modo suo la preghiera del figlio; decise di ricongiungere i due gemelli permettendo loro di stare insieme per sempre, trascorrendo metà del tempo agli Inferi, l’altra metà con gli Dei, sul Monte Olimpo. Ed ecco che io, da buona gemelli, passo metà del mio tempo agli Inferi, l’altra metà sull’Olimpo…o meglio, adattando il mito alle mie personali esigenze, metà tempo in terra, l’altra metà in cielo… alternando in modo equo le due facce della mia personalità, l’una assolutamente razionale, calcolatrice e logica, l’altra artistica, sregolata e fantasiosa… e giungendo quindi ad una conoscenza davvero multiforme… non è una forma di pendolarismo anche questa?
E considerando che a questa forma di pendolarismo “interna” io affianco l’altra, quella “esterna”, non posso forse affermare orgogliosamente di essere una pendolare al quadrato? … da questa considerazione deduco che stavolta ci ho decisamente azzeccato, e che questo è proprio il seminario che fa per me…

Francesca Rigotti, Il pensiero pendolare, Il Mulino 2006

mercoledì 23 maggio 2012

Lettori in viaggio / 7


Giovedì 20 ottobre 2011

LA GATTARA E LA SUORA
Intercity delle 8.35 per Milano.
Davanti a me una donna sui cinquantacinque. Piccola, paffuta. Capelli colore indefinito, sul castano, divisa su un lato, lisci, appena sulla spalle, poco folti. Volto senza un filo di trucco, guance rotonde. Maglietta attillata a manica lunga in lycra a piccola fantasia geometrica sui toni marrone e ruggine, jeans, scarpe da ginnastica chiare. Accanto a se, un trasportino con dentro un grosso soriano grigio tigrato.
“E’ allergica?” mi ha chiesto premurosa appena mi sono seduta.
Arrivano alcuni passeggeri stranieri, sudamericani. La donna ci scambia qualche frase in spagnolo, li informa che sta andando a Milano. Esce dallo scompartimento perché, dice, non ha alcun posto prenotato. Si mette seduta su un seggiolino nel corridoio e lascia sul sedile di fronte al mio il trasportino con il gatto, che mi guarda sornione dallo sportello aperto. La donna si mette a leggere: Germano Celant, “Precronistoria 1966-69”. Il gatto dormicchia, miagola debolmente ogni volta che si verifica un qualche episodio; transito rumoroso di passeggeri, annuncio diffuso dall’altoparlante.
Di fianco a me, una suora. Ha un cappotto azzurro in panno con le maniche strette al polso da un elastico, sotto un abito anch’esso azzurro, in testa un velo sempre azzurro, però più chiaro.
Capelli non completamente raccolti nel velo, castani. Sopracciglia piuttosto folte, non curate, occhi chiari, espressione serena. Noto che, stranamente, somiglia all’altra donna, solo che dev’essere più giovane; ha la pelle del viso più liscia. Dormicchia fin quasi a Bologna. Poi prende il cellulare, fa un numero, chiede “Come stai?”, parla con voce bassa, briga per delle prove di canto, nomina altre suore da coinvolgere: alcuni brani sono  incerti, vanno ripassati. Quando chiude la conversazione si mette a leggere, concentrata, il libro che fino ad allora aveva appoggiato al contrario sul tavolinetto di fronte a lei: “Genitori per sempre”, di Valerio Albisetti, edizioni Paoline, copertina bianca con il disegno di un albero, tronco marrone e foglie rosse.
All’avvicinarsi della mia fermata mi alzo e mi metto il cappotto; i sudamericani dormono, la suora e la gattara leggono, il gatto sonnecchia e socchiude appena un occhio per osservarmi mentre esco dallo scompartimento.

3 novembre 2011

PASSATO E FUTURO
Treno delle 18.28 per Pisa.
Davanti a me. Una donna di mezz’età legge un libro in edizione economica appoggiandolo sulla borsa che ha sopra le ginocchia: “La caduta dei templari”, di Jack Whyte. Ha i capelli corti, castano chiaro, indossa un piumino rosa aperto su un maglioncino leggero viola chiaro, e jeans scoloriti. Porta un paio di occhiali dalla montatura classica, dorata; ha la bocca sottile, una fossetta in mezzo al mento. Stringe gli occhi dietro le lenti, stringe anche le labbra, come a concentrarsi meglio; è talmente concentrata che corruga la fronte, tra le due sopracciglia si formano due solchi verticali molto marcati.
Accanto a lei, un giovane giapponese con una gran testa incorniciata da capelli lisci e nerissimi, il naso largo e un po’ schiacciato, la pelle delle guance leggermente butterata. Anche lui con occhiali dalla montatura classica, del tutto simili a quelli che indossa la donna, ma in metallo anziché color oro. Indossa un maglione nero con contorni bianchi e un paio di  jeans. Ha un giubbotto sportivo blu e rosso appoggiato sulle ginocchia, e sopra un e-book. E’ contenuto in un astuccio di pelle color marrone, lui sfoglia le pagine toccando appena lo schermo con il pollice. Lo schermo è grande abbastanza da far sì che ne possa vedere il contenuto anche io che siedo di fronte. E’ un fumetto, in bianco e nero. Ogni pagina contiene quattro vignette, ogni tanto, invece, lo schermo mostra un'unica grande vignetta  che occupa tutta la pagina e sulla quale il ragazzo pare fermarsi con maggior attenzione.
Quando scendo, la donna è ancora molto concentrata sul suo libro, mentre il ragazzo ha iniziato a lasciarsi andare a brevi, sommesse risate.

giovedì 19 aprile 2012

La coda di Berta (nei tubi)

L’Assessorato e il Consiglio delle pari opportunità del Comune di San Giuliano Terme organizzano “La primavera delle donne”, ciclo di incontri in cui scrittrici locali presentano altre scrittrici locali. E’ nell’ambito di questo ciclo che il 13 aprile sono stata chiamata a presentare “Berta nei tubi”, raccolta di racconti scritti da Maria Rita Battaglia. Il luogo dell’incontro è la saletta convegni della stazione di San Giuliano. Arrivo in anticipo sull’orario, faccio due passi in questo luogo dove non sono mai stata. Quello che credo sia il centro del paese è carino, c’è l’atmosfera silenziosa e retrò tipica delle località termali. Passeggio, scatto delle foto come una turista. C’è molto verde e questo è un particolare che mi  predispone positivamente. 

 
Con Maria Rita Battaglia ci siamo viste una sola volta, ci siamo scambiate dei messaggi; quanto ai suoi racconti, li ho letti e riletti. All’inizio mi hanno lasciata un po’ interdetta, tanto grande mi è subito sembrata la distanza tra Maria Rita e me; distanza di temi e soprattutto di stile. Però mi sono detta che è proprio dalle diversità e dai confronti che possono nascere  le riflessioni più interessanti e stimolanti. Se Maria Rita avesse avuto il mio stesso stile, la mia stessa ispirazione, cosa mai avrei potuto chiederle? E ne sarei stata incuriosita? Chissà. Invece i suoi racconti così surreali e, a tratti, onirici hanno finito per conquistarmi. Anche perché mi sono accorta che in definitiva non sono affatto così surreali né tantomeno onirici, ma molto più realistici di quanto sembri; è lo stile narrativo che ti spiazza,  e che non seguendo una concatenazione classicamente logica ti costringe ad una lettura su più piani. Le situazioni, i personaggi descritti rimandano ad altro, ed è in questa operazione di rimando che lo stile di Maria Rita si fa apprezzare.
Un architetto in visita ad una cliente si accorge che quest’ultima ha la coda, una lunga coda imposta dal marito.
Un iguana mangia pezzi di banana seduto a tavola, imboccato come un bimbo. “Una famiglia regolare”.
I ritratti degli avi appesi ai muri colano via nei tubi del riscaldamento.
In un teatro che è un mattatoio o forse è una chiesa, un manicomio, un bastimento, attrici bistrate distratte recitano la pazzia di Orlando.   
Mahasveta, una danzatrice che è una donna tigre, si accoppia con il danzatore Charu, che, alla fine, la paga per la sua prestazione e prende l’autobus per Bufangi.
Realtà e finzione, allucinazione e cronaca, spiegazione e allusione convivono nella stessa pagina, trasmesse attraverso uno stile che rivela la passione per le parole in quanto suoni, per le assonanze e le consonanze, per il divertimento nell’accostarle seguendo criteri non tanto logici ma piuttosto estetici, di pura estetica acustica, che ne asseconda e ne gusta i fonemi.
 “Saputelli e sapidi”
“Saccente, secerne sentenze.”
“Attrici bistrate distratte attraversano in trance il transetto di questa tragica cattedrale.”
Del resto, anche “Berta nei tubi”, il racconto che dà il titolo alla raccolta, ha una chiara assonanza con un’ altra denominazione artistica: “Marta sui tubi” nome di un gruppo punk folk italiano. 

 
Io e Maria Rita parliamo di queste cose e di altro, di famiglia e maternità, di oriente e della donna, “il negro del mondo” secondo la definizione di Yoko Ono riportata dalla mia ospite; parliamo di legami familiari e del precariato giovanile, del futuro incerto e del presente altrettanto incerto, del confronto con il “diverso da noi” che dobbiamo, in fondo, soltanto accettare come parte ineluttabile dell’ esistenza.
Le nostre chiacchiere sono accompagnate dalle letture di Cristina Sanae Valota e Antonio Ferazzoli, e intervallate dal magico suono dell’arpa di Francesca Andreazzoli.
Un pomeriggio piacevole, che mi ha lasciato la intrigante sensazione di essere dotata di una coda, e di non essermene mai accorta.
Il blog di Maria Rita Battaglia si trova all’indirizzo www.cartataglia.blogspot.com. Lì sono riportati tutti i racconti della raccolta “Berta nei tubi”, pubblicata dalla casa editrice 18:30 (collana I Tags) con licenza creative commons. Ne consiglio caldamente la lettura.

martedì 27 marzo 2012

Autrice o scrittrice?

Il bello di promuovere il proprio libro in giro è che può capitare di scoprire realtà particolarmente interessanti là dove meno te lo aspetti. Il 20 marzo ho presentato il mio romanzo a Campi Bisenzio, dove c’è “Libri di Toscana”. Uno spazio polivalente di cui si è dotato il settimanale Metropoli: una libreria ampia, confortevole e anche elegante, che dà spazio a autori e editori toscani vendendone i libri e promuovendo iniziative per la loro presentazione.
Mi intervista Giulia Ballerini, una ragazza che dà subito prova di essersi preparata con grande scrupolo; ha letto il libro con molta attenzione, tanto che ne cita frasi e brani con disinvoltura e precisione di riferimenti.
A me le presentazioni piacciono, non posso negarlo; ma mi fanno anche un po’ paura, perché l’intervistatore spesso non si accontenta e magari butta là qualche domanda che ti coglie di sorpresa costringendoti a rapide riflessioni spesso su concetti non banali.
E Giulia è appunto una cui piace scavare…



A un certo punto mi chiede: ma tu ti senti più autrice o scrittrice?
Bella domanda… Scrittrice, rispondo. Argomento qualcosa, la discussione prosegue prendendo subito altre pieghe ma il quesito continua a risuonarmi in testa, unitamente alla convinzione di aver dato una risposta soltanto parzialmente soddisfacente, e alla voglia di approfondire questo dilemma.
Cosa fa un autore di diverso da uno scrittore? E io, perché ho risposto che mi sento una scrittrice piuttosto che un’autrice?
Sul momento, ho fatto semplicemente riferimento al significato delle parole: un “autore” è chi ha pensato e creato qualcosa, non necessariamente un testo, ma anche un film, un quadro, una scultura… si dice, addirittura, autore televisivo… uno “scrittore” è una persona che scrive. E’ qualcuno che si dedica ad una attività prettamente letteraria.
E io questo mi sento: una persona che scrive. 
Volendo approfondire, si può prendere in esame il rapporto tra idea creativa e forma espressiva; è l’istanza creativa che si presenta come idea che poi si sviluppa attraverso una certa forma, o viceversa è la forma, il mezzo espressivo che prevale, modella l’idea stessa, la configura, le dà sostanza e profili definiti?
Nel mio caso, non ci sono dubbi, è la seconda ipotesi che ricorre. E’ attraverso la scrittura come mezzo creativo e espressivo che riesco a dar forma alle mie percezioni, ho bisogno della scrittura in quanto tale per esprimermi, non potrei essere autrice di nulla se non attraverso la scrittura. Quella della scrittura la intendo come un’attività quasi artigianale, che ha a che fare con l’assemblaggio fisico delle parole, la composizione di mosaici di frasi e periodi.
E, aggiungerei, mi sento non solo scrittrice, ma più esattamente scrittrice di storie. Il mio bisogno espressivo è pienamente appagato dal creare storie attraverso la scrittura, immaginare personaggi e situazioni, vivere altre vite, e fermare tutto su carta. Mi sono accorta, da poco tempo peraltro, che questa – la scrittura di storie – è l’unica forma di scrittura che mi appaga veramente. Il giornalismo, per intendersi, non mi attira per nulla, men che meno l’idea di scrivere saggi  o dissertazioni di altro genere. Sento di essere quella che gli anglosassoni chiamano novelist, una romanziera.
Meditando su questi concetti, il mio pensiero è andato alle indimenticabili serate trascorse per tutto il 2009 insieme agli amici del gruppo di scrittura F.B.S. (Fa bene scrivere, il corso grazie al quale ho scoperto la mia vera vocazione!)
Non si trattava di un classico corso di scrittura creativa, ma di qualcosa di molto diverso, qualcosa di più o forse di meno, chissà. La caratteristica che accomunava tutti noi frequentanti era una grande titubanza nell’ammettere ambizioni o aspettative particolari. Eravamo talmente modesti, che nessuno di noi osava definirsi “scrittore” né ammettere di aspirare a diventarlo. Una sera il conduttore del gruppo, forse per darci una bella scrollata, ci disse che tutti noi eravamo definibili attraverso una parola che iniziava per S. e ci invitò poi, uno per uno, a dire quella parola. Non ricordo se qualcuno disse “SCRITTORE”. Ricordo che una compagna si definì “SIGNORA”, un’altra, forse, “SOGNATRICE”, un’altra ancora, molto spiritosa, disse addirittura una parolaccia! E io?
E io dissi: sono un SOPRANO… e così me la cavai.
Ma davanti a Giulia Ballerini non ho potuto bluffare, e ho ammesso di sentirmi una scrittrice… che cambiamento a distanza di così poco tempo!  

   

martedì 13 marzo 2012

Il potere delle persone-libro

Non ho letto il celeberrimo Fahrenheit 451. Non sono mai stata attratta dalla fantascienza e le mie letture prediligono altre tematiche. Ma amo i libri, i libri di carta (ci tengo a sottolinearlo in questo momento in cui tutti magnificano l’avvento  degli e-book, per i quali non ho alcuna simpatia) e quindi sapevo che, prima o poi, avrei dovuto confrontarmi con l’esperienza promossa  dall’associazione delle “persone-libro”, che appunto dal romanzo di Bradbury trae ispirazione. L’occasione di questo confronto, o forse è meglio dire di questo incontro, mi è stata data dall’8 marzo; alla Biblioteca delle Oblate, a Firenze, le “persone-libro” hanno voluto  celebrare la festa della donna attraverso pagine sul femminile, recitate, o meglio dette, secondo quella che è appunto la filosofia che ispira l’attività dell’associazione, dopo averle imparate a memoria. Nel libro di Bradbury, le persone-libro imparano libri a memoria per salvarli dalla furia distruttiva di un regime totalitario che ha individuato nei libri il maggiore ostacolo al raggiungimento della “felicità”.
E noi, oggi? Perché le persone-libro si mettono ad imparare libri a memoria? E perché organizzano momenti in cui “dicono” ad altri le pagine che hanno memorizzato?


Con queste domande in testa ho camminato per gli spazi della Biblioteca delle Oblate alla ricerca della saletta dove si sarebbe svolta l’iniziativa. Spazi bellissimi, pieni di libri e di persone, tante, intente a leggere, a studiare, a scrivere, a consultare, a pensare. Spazi che mi hanno subito fatto sentire in un mondo a me simile, fatto di parole, e da dove si può osservare, guardando fuori da determinate finestre, una delle opere d’arte più immense della storia dell’uomo, la cupola del Brunelleschi, simbolo di questa città che dall’uomo ha ricevuto così tanto in termini di produzione culturale. E anche a lui, a Brunelleschi, ho rivolto le mie domande: perché, oggi, imparare libri a memoria? E perché ridirli ad altri? E già che c’ero ho buttato là qualche altro interrogativo, di carattere più esistenziale e personale. Ma la cupola ha continuato a risplendere in cielo nella luce azzurra del pomeriggio, con quella sua certa indifferenza un po’ snob, decisamente fiorentina.
Poi ho trovato la saletta e mi sono accomodata.   
Lì una decina di persone-libro, con molta semplicità e immediatezza, per un’ora circa ha proposto pagine di libri imparate a memoria; ho immaginato che fossero pagine a loro care, che avevano smosso qualcosa nel loro intimo nel momento in cui le avevano lette per la prima volta, che erano risuonate in qualche angolo del loro vissuto emotivo e che per questo si sono guadagnate un posto privilegiato nella loro personale classifica delle pagine più amate.
Ho così meditato su come queste persone stessero in realtà mettendo in gioco se stesse. Non si tratta soltanto di imparare libri a memoria per poi ridirli ad altri, si tratta anche di un tributo d’amore a chi con queste parole ci ha emozionato, commosso e forse anche turbato, e al modo in cui queste emozioni ci sono state trasmesse, cioè attraverso la parola scritta, che ha un suo specifico, singolarissimo e insostituibile potere comunicativo. Un tributo d’amore all’atto della lettura, un atto intimo e discreto, un tributo d’amore all’atto della scrittura, che può essere sì un momento di gioiosa espressione di sé ma anche di faticosa confessione, un tributo d’amore all’intelligenza umana che con la scrittura e con la lettura ha storicamente scelto di erigere i pilastri portanti del proprio progresso intellettuale e di civiltà.
Ho immaginato il tempo che le persone-libro hanno impiegato per imparare i loro brani, sicuramente c’è chi ha più facilità e impara in fretta, chi invece ha bisogno di più tempo, le ho viste alle prese con le loro tecniche di memorizzazione, e ho provato un sentimento di grande riconoscenza per il loro impegno apparentemente così gratuito e invece così profondamente motivato: motivato a far si che le persone continuino a pensare, a emozionarsi, a stare insieme nel nome delle parole scritte, lette e anche dette, insomma, a credere nella magia dei libri e nel potere dell’intelligenza creativa.
Sono tornata a casa con un paio di propositi: ritornare alla Biblioteca delle Oblate, per continuare a interrogare Brunelleschi che forse, dalla profondità dei secoli, prima o poi mi risponderà; e leggere Farheneit 451. Chissà, magari diventerò una divoratrice di libri di fantascienza. Potere delle persone-libro!

giovedì 9 febbraio 2012

Le interviste impossibili / S.S.Van Dine

CRISTINA PRETI: Buongiorno, è lei S. S. Van Dine, l’autore di gialli che ha elaborato la lista delle venti regole da rispettare per scrivere un perfetto poliziesco?
S. S. VAN DINE: Si, sono io.
C.P.: Sono qui per chiederle una mano a risolvere un mio problema. Ha un po’ di tempo da dedicarmi?
S.S.V.D.: Ma certo.
C.P: Sono una scrittrice. A dire il vero ho scritto un solo romanzo e non so se questo basti per guadagnarmi la definizione di scrittrice. Comunque sia, il mio problema è questo. Tutti scambiano il mio romanzo per un giallo!
S.S.V.D.: E perché mai?
C.P.: Non lo so. Si intitola: La donna che morì bevendo caffè.
S.S.V.D.: In effetti… C’è subito un morto. Lei sa che una delle mie regole prevede che in ogni poliziesco che si rispetti debba esserci almeno un morto, e più il morto è morto, meglio è.
C.P.: Ma ci sono morti in tanti romanzi, non soltanto nei polizieschi.
S.S.V.D.: Il titolo è chiaro. C’è un cadavere e se ne specifica anche il sesso; e anche la causa del decesso, mi immagino desunta dal referto dal medico legale.
C.P.: Ma no, quale medico legale. Non compare nessun medico legale nel mio romanzo.
S.S.V.D: Comunque, il veleno nel caffè o nelle bibite è un topos della letteratura gialla. Quindi se ha utilizzato questo espediente nell’intreccio della sua storia, possiamo a pieno titolo parlare di romanzo giallo.   
C.P.: La prego, non si fermi anche lei alle apparenze.
S.S.V.D: Fermarsi alle apparenze, per un giallista, è un errore imperdonabile. Bisogna applicare criteri di analisi scientifici. Analizziamo il suo romanzo  attraverso le mie regole. Vedrà che verremo a capo della questione. Dunque, lei sa che la prima e fondamentale regola del giallo è che il lettore deve avere le stesse possibilità del poliziotto di risolvere il mistero. Si verifica, questo, nel suo romanzo?
C.P.: Le ho detto che non è un giallo, quindi non c’è un poliziotto. Però, in effetti, il protagonista conduce una specie di indagine, e il lettore è in pratica messo a conoscenza di tutto ciò di cui viene a conoscenza lui stesso.
S.S.V.D. Benissimo. Prima regola rispettata. Andiamo avanti: non deve esserci una storia d’amore troppo interessante.
C.P. Bè, diciamo che un po’ d’amore c’è, ma la storia non va nemmeno a finire bene, i due si lasciano.  
S.S.V.D.: Ottimo. Lo scopo è di condurre un criminale davanti alla giustizia, non due innamorati all’altare. Altra regola fondamentale: niente scritture medianiche, sedute spiritiche, lettura del pensiero, suggestioni e magie.
C.P.: Non c’è niente di tutto questo nel mio romanzo. Il protagonista di mestiere fa il commercialista,  figuriamoci se crede alle stregonerie!
S. S.V.D.: Benissimo. Ci sono per caso servitori ambigui, di cui sospettare?
C.P.: Ma no. Juanita, la colf, è affidabilissima e concreta.
S.S.V.D.: Bene anche questo.  I servitori non devono mai essere scelti come colpevoli. E’ una soluzione troppo ovvia.
C.P.: Ma come le ho detto nel mio romanzo non ci sono colpevoli!
S.S.V.D.: Un poliziesco senza colpevoli è inammissibile. Significa turlupinare il lettore che non solo ha speso come minimo dieci euro per comprare il volume, ma che se lo è pure sorbito tutto, dalla prima all’ultima pagina.
C.P.: Io non voglio turlupinare nessuno.
S.S.V.D.: Ma mi sembra di capire che non lo faccia affatto. C’è un morto, un personaggio che indaga, una serva fidata, metodi  di indagine scientifici, niente storie d’amore o strane fantasie esoteriche, indagine condotta di pari passo con il lettore. Meglio di così! Un giallo perfettamente rispettoso delle mie regole.
C.P.: Ma non è un giallo! Come devo dirglielo?
S.S.V.D: I fatti parlano chiaro. Mi dispiace per lei. Guardi, prendiamo in esame un’altra regola, l’ultima: si devono evitare come la peste certi terrificanti luoghi comuni. Ci sono nel suo romanzo mozziconi di sigaretta sul luogo del delitto che vengono confrontati con le sigarette fumate dai sospettati?
C.P.: Ma no. Alcuni personaggi fumano, ma buttano i mozziconi negli appositi cestini o nei posacenere. Nessuno li raccoglie per confrontarli e schifezze del genere.
S.S.V.D.: Benissimo. Impronte digitali falsificate?
C.P. Niente affatto.
S.S.V.D.: Alibi creato grazie a un fantoccio?
C.P.: Ma quale fantoccio?
S.S.V.D.: Cane che non abbaia e quindi rivela il fatto che il colpevole è uno della famiglia?
C.P.: Nessun cane nel mio romanzo. I cani non mi piacciono.
S.S.V.D.:Neanche a me. Un altro punto a suo favore. Siringhe ipodermiche? Bevande soporifere?
C.P.: Ma no!
S.S.V.D:Insomma signorina, il suo romanzo rispetta perfettamente le regole imprescindibili per scrivere un poliziesco! Complimenti!
C.P. Ma le ho detto che non è un poliziesco!
S.S.V.D.: Uhm. Caso interessante. Io penso che…
C.P.: Si?
S.S.V.D.: Deduco che…
C.P.: Si?
S.S.V.D. : Grazie ai miei metodi scientifici di analisi, deduco che lei abbia scritto un giallo senza accorgersene.
C.P.
S.S.V.D.: E’ convinta, adesso?
C.P.: No. Niente affatto. So solo che il mio prossimo romanzo avrà un altro titolo.
S.S.V.D.: Ah si? Quale?
C.P.: L’uomo che visse mangiando spaghetti. Arrivederci. 
S.S.V.D.: Arrivederci. (tra sé) L’uomo che visse mangiando spaghetti. Titolo strano, quasi fuorviante per un giallo… intrigante, però… incuriosisce subito. Devo mettere in guardia questa signorina, perché non cada nella trappola delle ovvietà, e scriva che il colpevole è il cuoco…