lunedì 26 dicembre 2011

Scrivere è volare

Il 4 novembre presento il mio romanzo nell’ambito della XXI° edizione di “Leggere è volare - Festa del libro per ragazzi e giovani nelle terre di Siena”. La brochure del programma è davvero carina, l’immagine di copertina l’ha disegnata Milo Manara; vi si vede una bella e giovane ragazza che legge un libro (di Franz Kafka) e che grazie alla lettura si eleva al di sopra di una folla quasi indistinta. La presentazione, che si svolge a Siena, nella “Tendostruttura” dei Giardini La Lizza,  è curata da Domenico Bova, con cui mi sono sentita solo per telefono. Quando lo incontro di persona mi rendo conto che è giovane, poco più che un ragazzo. Mi ha detto che fa il giornalista; beato lui!


Iniziamo la nostra chiacchierata, Domenico è simpatico, ha un tono colloquiale che mi ispira. Mi propone una serie di spunti intelligenti, qualche apprezzamento che fa sempre piacere; mi dice che la mia scrittura è musicale.
Poi attacca un discorso che sembra un po’ complicato, parla di “modelli”, “scrittori di riferimento”, “ispirazioni.”. Aiuto! Adesso chissà cosa tira fuori…magari un autore che nemmeno conosco, o forse qualcuno che mi sta antipatico, un italiano che non mi piace,  un americano, magari, di cui non ho letto nulla…
E invece…
Magicamente, dopo il breve e misterioso preambolo, a cosa ha il coraggio di accostare, per tematica e forse anche per stile, il mio romanzo?
… per quanto possa sembrare incredibile… dalla bocca di Domenica Bova esce questo titolo:
L’isola di Arturo, di Elsa Morante!
Resto quasi senza fiato e dico che no, non ci avevo mai pensato, mentre scrivevo avevo sempre accuratamente evitato di riflettere su stili o di evocare modelli; come osare, poi, accostarsi ad Elsa Morante, una delle più grandi scrittrici italiane e una delle mie autrici preferite, se non la preferita in assoluto…
“La preferita in assoluto” … eppure, è vero, è proprio così! Ed è emozionante che una persona che non sa nulla di me e non mi conosce se non attraverso la lettura del mio romanzo abbia riscontrato nelle pagine che ho scritto una assonanza con questa scrittrice da me così amata, così unica…
Continuo dicendo che Elsa Morante è una delle scrittrici che ho letto con maggior piacere e passione. E ricordo, improvvisamente, come in un flash, che la storia narrata nel romanzo della Morante rammentato da Bova  parla di un rapporto genitore-figlio, proprio come succede nel mio La donna che morì bevendo caffè, solo che lì, nell’Isola di Arturo, la coppia analizzata è quella padre-figlio; e mi accorgo che è ancora una volta il rapporto genitore-figlio ad essere analizzato in un altro romanzo di Elsa Morante da me molto amato, Aracoeli, dove però la vicinanza alle tematiche de La donna che morì bevendo caffè è ancora più marcata, trattandosi stavolta del rapporto madre-figlio… ricostruito, oltretutto, quando la madre è già morta, proprio come nel mio libro…


Come ho fatto a non pensarci prima? Eppure questi due romanzi hanno costituito i capisaldi delle mie letture giovanili… ricordo ancora quella mattina del 1982, al liceo, quando il professore esordì dicendo: “Oggi esce il nuovo romanzo di Elsa Morante”…
E io, che alla tenera età di 9 anni ero stata folgorata da La storia, letta di nascosto dai miei genitori che me l’avevano proibita come libro non adatto alla mia età, mi precipitai a investire i soldi della mia paghetta settimanale  nell’acquisto di Aracoeli, letto in un soffio, con la voracità tipica dei quindici anni…
Sia nell’Isola che in Aracoeli i figli protagonisti del racconto sono impegnati in un processo di ri-costruzione della vera “identità” psicologica e morale del genitore, processo che li condurrà, inevitabilmente, anche ad una ri-definizione di se stessi.
Arturo, che è un ragazzino, effettua le sue scoperte in merito all’amata, idolatrata figura del padre  suo malgrado, senza muoversi dall’isola di Procida, limitandosi a reagire e interagire con gli avvenimenti che via via gli si concretizzano attorno; Manuel, protagonista di Aracoeli, già adulto, intraprende invece la sua ricerca in modo assolutamente volontario, con un viaggio nella regione natale della madre, in Spagna. (quell’Andalusia che evidentemente sulla Morante doveva esercitare un’ attrattiva singolare; ripenso al fascinoso titolo di una sua bella raccolta di racconti, Lo scialle andaluso)      
Alla fine dei due romanzi, né il padre di Arturo né la madre di Manuel ci appariranno così come ci erano stati presentati all’inizio della narrazione; e anche i due figli saranno inevitabilmente diversi, entrambi feriti e marchiati dalle scoperte fatte, costretti ad affrontare quel che li attende – la vita - con animo nuovo, più dubbioso, più tormentato, più dolente, ma anche più maturo.
E il mio Orso? Non succede, forse, lo stesso anche a lui?
Eh si, Domenico Bova ha proprio ragione…
E per un attimo me li immagino tutti e tre, Arturo, Manuel e Orso, riuniti in un virtuale salottino letterario, abituale ritrovo dei personaggi dei romanzi, tutti impegnati a chiacchierare, a bere caffè e a scambiarsi opinioni e battute sulle proprie storie, sui propri rispettivi genitori…
Che bello, scrivere. Scrivere è volare. 



martedì 13 dicembre 2011

Lettori in viaggio / 5

Giovedì 29 settembre 2011.

IL GIOVANE MANAGER
Treno Frecciarossa per Milano. Partenza da Firenze alle ore 9.00.
Di fronte a me, un giovane manager. Completo giacca e pantalone blu scuro, camicia a righine azzurre, cravatta sottile, blu. Scarpe legate, marrone scuro. Calvo, sopracciglie folte, accuratamente sbarbato, odoroso di dopobarba; bocca ben disegnata, volitiva. Dita senza anelli, mani piccole con peluria che dai polsi si allunga sul dorso. Parla continuamente al cellulare. Accento romanesco, ma controllato. Appuntamenti, percentuali, forniture, segretarie, I.V.A., fatture, spedizioni, merci, ufficio di collocamento, paesi esteri – Dakar, Ginevra, Shangai - nomi stranieri – Willy, Josè, Duke, Jennifer. Chiude una conversazione, digita un numero e ne inizia un’altra. Ininterrottamente.  Ogni tanto, parlando, consulta l’agenda, grande e sottile, con copertina di pelle nera lavorata. Prende qualche appunto. Dopo circa mezz’ora ininterrotta di telefonate, e siamo già quasi a Bologna, con mossa fulminea estrae un libro dalla borsa nera appoggiata a terra e si mette a leggere. “Per sempre” di Edoardo Nesi. Legge muovendo piano la bocca, sillabando a bassissima voce, impercettibilmente, le parole. Dopo pochi minuti, afferra il cellulare e digita un messaggio. Si rimette a leggere. Va avanti forse una pagina, quindi armeggia di nuovo con il cellulare e spedisce un altro messaggio. Siamo ripartiti da pochi secondi da Bologna, riprende il cellulare e fa una telefonata. E’ arrabbiato, è successo qualcosa che lo irrita; appoggia il libro sul tavolinetto e si lancia in una lunghissima conversazione che dura più di mezz’ora. Riprende il libro, legge forse mezza pagina, nuova telefonata. Prosegue così per tutto il viaggio: breve lettura a voce bassissima, messaggi, telefonate. Fino a Milano, dove arriviamo alle 10.45.

Martedì 4 ottobre 2011

LA TAMPONATA
Treno delle 7.23 per Firenze. Accanto a me una donna sui cinquanta. Ne sbircio il profilo. Capelli lisci sulle spalle, occhiali rettangolari dalla montatura sottile e blu, mento piccolo e sfuggente. Soprabito leggero  di un bel marrone/ruggine, jeans, ai piedi ballerine nere. All’anulare della destra, un anello caratterizzato da una grossa pietra scura. Appoggiata sulle ginocchia una grande borsa marrone, con una sciarpetta color crema legata al manico. Sopra alla borsa ha appoggiato un libro aperto, di cui non vedo né copertina, né titolo. Stringe in mano un lapis, mi accorgo che lo ha utilizzato per sottolineare il testo e per prendere appunti ai margini delle pagine. E’ distratta, guarda fuori. Distinguo i titoli dei capitoli sulle pagine del libro aperto: “La parola giusta”, e poi: “Parti col piede giusto”. Un libro sulle tecniche di comunicazione, forse, sull’empowerment personale. Ma la lettrice pare aver voglia di riflettere, più che di leggere. Guarda fuori dal finestrino e pensa. Verso Montelupo gira pigramente pagina. Compare in neretto un capitolo intitolato: “Parole d’oro, parole di piombo.” La lettura non va avanti. A Rifredi, mentre il treno è fermo per la discesa e la salita dei passeggeri, le suona il cellulare. Velocissima, chiude il libro e risponde. Voce corposa, bassa, ma un po’ arrochita; accento dell’Italia del nord. Un secondo per i saluti e poi, subito:
“Ma sai cosa mi è successo a Milano. Ero in macchina nel parcheggio del supermercato, stavo uscendo, una ha fatto retromarcia e mi ha colpito in pieno. Sono scesa, e quella è scappata. Eh ma le ho preso la targa, so già chi è e dove abita. E’ che con questa crisi la gente non paga più le assicurazioni. Per questo quella è scappata. L’ho raccontato a Fabrizio e ci siamo ricordati di quando fu tamponato lui. Rammenti anche tu? Era la figlia dei proprietari della fabbrica di fiammiferi *****. Poverina, si scusò tantissimo, era molto spaventata. Sistemammo tutto. Eh ma adesso il mondo è cambiato.”

sabato 26 novembre 2011

Un caffè borghese

Alla presentazione del mio libro a Empoli, la città dove vivo, tenevo molto, per ovvi motivi. Il fatto ch’io abbia pubblicato un romanzo ha destato la naturale curiosità delle persone che conosco e per quanto la presentazione non aggiunga nulla al fatto in sé – uno può recarsi in libreria e acquistare il romanzo, se ne ha voglia, sia stato esso “presentato” o meno – c’era, in amici e conoscenti, una sorta di “aspettativa” della presentazione, quasi si trattasse di un rito, il momento definitivo di ufficializzazione e consacrazione: si, è vero, hai scritto un libro e lo hai pubblicato, ma finché non l’hai presentato, e presentato nella città in cui vivi, a noi, alle persone che conosci e che frequenti abitualmente, ebbene, fino a quel momento si tratta di un evento vero a metà.
Con la libreria Rinascita di Empoli ho un rapporto che affonda le radici negli anni della mia giovinezza, quando il negozio era ancora nella vecchia sede, in Via della Noce. Ho cercato tra i miei ricordi l’immagine più remota legata a questa libreria; mi rammento, lontanissimo nel tempo, un pomeriggio degli anni del ginnasio in cui, nella vecchia sede di Via della Noce, cercavo con un’amica un libro da regalare a un ragazzo che forse ci piaceva un po’. Comprammo “La boutique del mistero”, di Dino Buzzati.
La libreria è nella sede attuale dal 1994; incredibile quanto ancora io la percepisca, in fondo, come una sede molto recente, in cui il negozio si è trasferito da pochissimo. Questa sede per me resterà “nuova” per sempre, anche tra trent’anni…
E così il sette ottobre 2011 ci siamo ritrovati alla libreria Rinascita, nella sua sede “nuova” di Via Ridolfi,  per la presentazione de “La donna che morì bevendo caffè.”
La presentazione è stata curata da Marisa; Silvia ha letto alcuni brani. C’era molta gente, molte facce conosciute, un clima accogliente e di entusiasmo che mi ha fatto sentire, ovviamente, a casa.


Marisa mi ha fatto tante domande, ancora una volta ho constatato quanto sia vera quella osservazione in base alla quale una volta che uno scrittore ha pubblicato il suo libro smette in un certo senso di esserne il padre o la madre, poiché il libro, proprio come fanno i figli, prende la propria strada, se ne va per il mondo e ti abbandona, e attraverso l’intervento di chi lo legge diventa “altro”, diventa quello che il lettore vuole che diventi. Lo stesso libro si trasforma in qualcosa di diverso per ognuna delle persone che lo leggono. Meraviglia delle alchimie psichiche e mentali.
Così Marisa, nella sua introduzione e nelle sue domande, si è soffermata su tematiche e particolari che io nemmeno ricordavo di aver trattato… o che pensavo fossero interpretabili in altro modo… o che non credevo potessero assumere una particolare evidenza. Tra le varie questioni da lei annotate, una mi ha colpito.
“Nel romanzo si parla di borghesia” dice Marisa. “Una parola che non sentivo nominare da tanto tempo”.
E’ vero. Nel romanzo, a un certo punto, emerge questa tematica: Orso, il protagonista, viene accusato da una ragazza di essere “borghese”, resta molto colpito da questo appunto e per un po’ di tempo riflette sulla faccenda, e alle persone che frequenta chiede: ma secondo te cosa vuol dire borghese?
Le risposte sono generiche, lui stesso sa che la domanda ha poco senso e la questione resta un po’ così, sospesa a mezz’aria, tra il malumore del povero Orso, al quale non ne va bene una, e lo scorrere della vicenda.
In effetti Marisa ha ragione, di borghesia oggi si parla poco forse perché in quanto classe sociale non esiste più, o almeno non nell’accezione storico-politico-sociologica in cui la si poteva intendere fino al secolo scorso.
Nel mio romanzo – e nell’accusa che la ragazza rivolge a Orso – l’essere borghese è diventato, più che una connotazione socio-politica,  una caratteristica comportamentale, un atteggiamento culturale; il borghese del mio romanzo è un benestante chiuso nei propri riti e nelle proprie abitudini da persona per bene, conformista, poco aperto al mondo esterno, rassicurato dal proprio ambiente provinciale e chiuso, senza alcuna voglia di confronto, di guardare “oltre”.

Così, mentre Marisa continuava con le sue domande e la presentazione andava avanti, mi è tornata in mente una canzone degli anni ’70, di Claudio Lolli, della quale però riuscivo a ricordare soltanto il ritornello:

Vecchia piccola borghesia, per piccina che tu sia
Non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia.

Una volta a casa, quindi, ho cercato il testo completo e me lo sono letto;

Vecchia piccola borghesia per piccina che tu sia
non so dire se fai più rabbia, pena, schifo o malinconia

…sei contenta se un ladro muore o se si arresta una puttana
se la parrocchia del Sacro Cuore acquista una nuova campana

… sei soddisfatta dei danni altrui ti tieni stretta i denari tuoi
assillata dal gran tormento che un giorno se li riprenda il vento
 
…godi quando gli anormali son trattati da criminali
 chiuderesti in un manicomio tutti gli zingari e gli intellettuali
 
…sai rubare con discrezione meschinità e moderazione
 alterando bilanci e conti fatture e bolle di commissione
 
… sai mentire con cortesia con cinismo e vigliaccheria
hai fatto dell'ipocrisia la tua formula di poesia.
 
… di disgrazie puoi averne tante, per esempio una figlia artista
oppure un figlio non commerciante, o peggio ancora uno comunista

… sempre pronta a spettegolare in nome del civile rispetto
sempre fissa lì a scrutare un orizzonte che si ferma al tetto
 
Vecchia piccola borghesia, vecchia gente di casa mia
Per piccina che tu sia il vento un giorno, forse, ti spazzerà via

Non è esattamente così la borghesia del mio povero Orso, ragazzo di buona famiglia, certo, ma una famiglia nella quale non si ritrovano le punte di cattiveria e gretta perfidia di cui canta Lolli. Anzi; i disgraziati e i criminali non sono affatto stigmatizzati (la madre di Orso, insegnante, si prende cura dei suoi allievi più sfortunati), l’avere una figlia artista non è considerata una disgrazia (la sorella di Orso, Chiara, dipinge) e non c’è alcuna intenzione di chiudere in manicomio gli intellettuali (per diversi personaggi la cultura è valore fondamentale). La borghesia del mio romanzo è una borghesia progressista, anche se non ha abbandonato la sua tradizionale matrice di ipocrisia e perbenismo; come ben dice Lolli, è rimasta sempre fissa lì a scrutare  un orizzonte che si ferma al tetto.
E forse è per questo che non si è evoluta, ma si è semplicemente estinta…


sabato 19 novembre 2011

Lettori in viaggio / 4

Martedì 27 settembre 2011

LA CINOFILA E IL PROFESSIONISTA 
Treno per Firenze delle 7.09. Davanti a me, una giovane ragazza con in braccio un cane, un barboncino nero molto vivace. Collarino vezzoso, color rosa. Evidentemente curatissimo. Mentre mi sistemo a sedere, la ragazza piega il giornale che ha appena finito di leggere e lo appoggia in equilibrio precario sul bordo del finestrino. Il cane scodinzola; sorrido. La ragazza mi dice che il barboncino si chiama Ania. Accanto a lei si siede un uomo giovane, molto alto, calvo di quella calvizie classica, iniziata con una stempiatura e progressivamente ampliata fino a scoprire interamente la testa lasciando un’aureola di capelli intorno. Testa rotondissima, lucida. Barba e baffi castano scuri, accuratamente sagomati da una attenta rasatura, barba brizzolata sul mento. Ha un completo giacca e pantaloni nero, camicia di un azzurro chiarissimo, cravatta scura sottile. Mocassino nero, lucido. Potrebbe essere un avvocato, o un commercialista. Appena seduto estrae un libro da una borsa di pelle nera piuttosto logora che si appoggia sulle gambe, ponendoci sopra il libro da leggere. “I volenterosi carnefici di Hitler”, di Daniel Jonah Goldhagen.
La ragazza col cane, prima di scendere, mi chiede se voglio il giornale, chè tanto lei lo ha già letto.
E’ un giornale locale che di solito non compro. La ringrazio. Al bar, facendo colazione prima di entrare in ufficio, sfoglio questo quotidiano che non leggo mai e scopro che una cara amica che non vedo e non sento da tanto tempo si è aggiudicata  un importante premio nazionale per l’imprenditoria femminile.

Martedì 27 settembre 2011

LA ROMANTICA
Treno ore 15.10 per Siena. Donna di mezz’età, tra i quarantacinque e i cinquanta. Capelli corti decisamente neri, fini, con breve ciuffo pettinato a destra, stile Haudry Hepburn. Porta occhiali scuri da sole, dalla montatura leggera. Alle orecchie due lunghi pendenti con pietrine bianche sfaccettate. Indossa una t-shirt di cotone nera con grande scollo rotondo, pantaloni neri infilati in un paio di stivaletti color crema. Dallo scollo si scorge un generoso decolletè tutto punteggiato di efelidi marroncine. Una sottile sciarpa di seta, anch’essa color crema, è avvolta intorno al collo e poi scende giù ad annodarsi sul petto. Unghie laccate di un marrone molto scuro. Mastica chewing gum e legge un libro in edizione economica, che riporta in copertina la foto di spalle di un mezzobusto femminile con i capelli al vento: Mary Kate Stilton, “Un vuoto da colmare”.
Ha appoggiato la sua grande borsa chiara sul seggiolino accanto. A Firenze Rifredi, una signora appena salita le chiede se il posto è libero. “Certo!” esclama, con voce cristallina e decisa. Prende la borsa, se l’appoggia sulle ginocchia, ci sistema sopra il libro, e continua a leggere masticando il suo chewing gum.

domenica 6 novembre 2011

Le interviste impossibili / Umberto Eco

CRISTINA PRETI: Buongiorno, professore.
UMBERTO ECO: Buongiorno… (tace, gira la pagina del libro che ha in mano e continua a leggere)
CP… forse la disturbo? Vuole che torni più tardi?
UE: No, no… venga pure. Mi scusi, ma sono immerso in una lettura così appassionante. Un trattatello di Invernizio da Pergoleto sul Millenarismo, corredato da una serie di accurati ritratti dei più importanti esponenti del movimento. Lei conosce Invernizio da Pergoleto, immagino.
CP: … ecco… se devo essere sincera…non è che questo nome al momento mi sovvenga in modo particolare e …
UE: Capisco, capisco. Tra gli studiosi di millenarismo ormai è noto soltanto Charles Du Prêtre De la Clef Du Roi. Tutti conoscono soltanto lui, per il resto, zero. O tempora, o mores! E lei cosa ha letto di Charles Du Prêtre De la Clef Du Roi? “Le millénarisme et le jardin suspendu”?
CP: (Ma di cosa sta parlando?)… mi spiace deluderla, ma non ho fatto studi così approfonditi e …
UE: “Le merveilleux monde du millénarisme distrait”?
CP: …non conosco nemmeno questo testo…
UE “Le millénarisme, cet inconnu”? E’ il testo più conosciuto. Un classico.
CP: Guardi, mi appunto questi titoli e quando torno a casa me li procuro e li leggo…
UE: Scusi, ma vedo qui che quando mi hanno messo in agenda l’appuntamento con lei l’hanno definita scrittrice. Pensavo avesse una cultura adeguata alla sua qualifica. Ma evidentemente non è così. O tempora, o mores!        
CP: (Dio mio. È matto.) Sono mortificata. Le assicuro che non appena arrivo a casa…
UE: Invece di perdersi in scuse si metta sotto con lo studio. Mi sembra proprio che le manchino le basi. Poveri noi. O tempora… Dunque, se è definita scrittrice sarà perché ha scritto un libro.
CP: (Finalmente! Forse si comincia a parlare di cose normali) Esattamente, è proprio così!
UE: Bene. Come si intitola? E di cosa tratta?
CP: Il mio romanzo si intitola “La donna che morì bevendo caffè”. Tratta del rapporto madre-figlio.
UE: Ah. Topica classica.
CP: Scusi?
UE: Classica, classica. Topica classica.
CP: (Ma cosa ha capito?) … professore…io non voglio certo contraddirla, ma il mio romanzo non è che si concentri su questi argomenti … come dire… così scabrosi… parla soprattutto del rapporto madre-figlio e…
UE: E io cosa ho detto? Scabrosi? Quali argomenti scabrosi? Ho affermato soltanto che la topica è classica. Non può certo darmi torto. Non vorrà sostenere che la topica non è classica. A meno che lei non conosca il significato della parola “classica”…
CP: Ma no, si figuri, semmai è sull’altro termine che potrei avanzare qualche dubbio…
UE: Quali dubbi? Nessun tipo di dubbio su topica, spero. Cos’è la topica? Notoriamente il  metodo per individuare tipi di argomentazione persuasiva in questioni non risolvibili col ragionamento apodittico. Conosce lei il ragionamento apodittico?...
CP: (Dio mio, ma cosa vuole questo?) Dunque apodittico… guardi io posso solo provare a ... apò… beh mi vengono in mente altre parole che cominciano con apò… apostata, apocalisse, apostrofo…
UE: Ma cosa dice? Suvvia, si concentri… ragionamento apodittico… apodittico!
CP: (Gesù e adesso? Che figura…) Guardi, cerco di arrivarci… lascio perdere apò e mi concentro su “dittico”… dunque dittico a differenza di trittico che indica un qualcosa composto di tre parti ne indica una composta di due… quindi il ragionamento apodittico è quello che deriva dal confronto di due  questioni…e…
UE: Lei sta arrancando, è chiaro… apodittico, semplicemente il contrario di anapodittico. E quali sono le verità anapodittiche?
CP: Le verità… anapo…
UE: Guardi, se io le dico “ogni cerchio ha un centro”, il giudizio formulato è apodittico o anapodittico?
CP: (Dunque manteniamo la calma… ho il 50 e 50 di possibilità.... mi butto.) Ma ovviamente apodittico, professore.
UE: Vede? Vede che non è difficile? Non è adeguatamente preparata, eppure mi sento di affermare che può farcela. E dunque torniamo a questo suo scritto, questa “Donna che morì bevendo caffè”. In che epoca è ambientata la storia?
CP: (Ecco, via, forse è la volta buona che si comincia.) Ai nostri giorni. La donna muore nel settembre 2007…
UE: Quindi dopo il Concordato di Worms.
CP: Come ha detto, scusi?
UE: La vicenda è ambientata dopo il Concordato di Worms.  
CP: Bè… presumo di si.
UE: Che vuol dire “Presumo di si”? I casi sono solo due. La vicenda si svolge o prima o dopo il Concordato di Worms. Allora?
CP: (Accidenti a lui. Devo rispondere. Non ricordo nulla di questo cavolo di Concordato, ma sarà roba del medioevo.) Dopo, professore. Si svolge dopo.  
UE: Bene. Ma non creda di potersela cavare così. Ricorda la data del Concordato di Worms?
CP: (Oh Dio, si ricomincia.) Io… ora con esattezza non ricordo… diciamo che  potrebbe essere verso… il 1100, 1200…
UE: Mi scusi, ma è una risposta inaccettabile. Una scrittrice quale lei proclama di essere non può non ricordare la data del Concordato di Worms, snodo storico fondamentale, che segnò la momentanea chiusura del conflitto per le investiture tra Stato e Chiesa. Immagino che se non sa in quale data fu sottoscritto questo concordato tra Enrico V e papa Callisto II, non saprà niente nemmeno del canonista  Ivo di Chartres, che negli ultimi anni del secolo undicesimo…
CP: (Aiuto. Meglio scappare…) Mi scusi professore… mi sta squillando il cellulare. Devo salutarla.
UE: Come? Se ne va? Ma… lei voleva intervistarmi, farmi delle domande sui miei libri, sulle mie tecniche di scrittura… o sbaglio?
CP: Si, si, è così, ma… sarà per un’altra volta. E’ stato un piacere… arrivederci professore. (scappa precipitosamente)
UE: Arrivederci, arrivederci. (Scuote la testa) Che strano tipo. Tutti così questi giovani, pieni di ambizioni ma ignoranti come capre. O tempora, o mores! Dunque dov’ero rimasto? Ah! Il mio Invernizio da Pergoleto! (si rimette a leggere)

sabato 29 ottobre 2011

Il club di Jane Austen - Emma

Fino a non molto tempo fa, di Jane Austen avevo letto un solo romanzo: "Orgoglio e pregiudizio", forse il più famoso. Mi era piaciuto, ma mi era bastato; dubito che avrei letto qualcos'altro di quest'autrice, se non fosse venuta fuori la proposta di entrare a far parte del "Club di Jane Austen", promosso dalla mia amica Alessia a seguito della visione dell'omonimo film e del proposito di "copiarne" l'idea.
Ho aderito perché il gruppo che si andava formando intorno all'iniziativa di Alessia era simpatico e poi perché, in fondo, si tratta né più né meno di un circolo di lettura. Non ho mai fatto parte di circoli di lettura, e quindi... perché no? 
Il nostro è un gruppo serio, che si è messo subito a "lavorare" con impegno. Dopo aver letto "Ragione e sentimento", "Orgoglio e pregiudizio" e "Mansfield Park", è stata la volta di "Emma", uscito nel 1815, l'ultimo dei romanzi austeniani ad essere pubblicato con la sua autrice ancora in vita. Infatti i due restanti ("Persuasione" e "L'Abbazia di Northanger" uscirono postumi. 
In "Emma", così come negli altri romanzi austeniani, ho trovato un po' difficile l'avvio; la classica sensazione di quando una lettura "non decolla". Però una volta "partito" il romanzo mi ha molto presa, e l'ho letto volentieri. In fondo questo modo lento di essere introdotta nel cuore della vicenda richiama, metaforicamente, la circospezione e la cautela con cui avveniva l'ingresso di un nuovo membro nella buona società di campagna nell'Inghilterra di fine settecento; più in generale, richiama la lentezza dei tempi che furono.
E dunque, una volta introdotta in questa piccola comunità, mi sono ritrovata seduta nel salotto della famiglia Woodhouse, sorseggiando tè e osservando attentamente i minimi accadimenti caratterizzanti le relazioni tra i componenti di questo gruppo: i tentativi di Emma di "sistemare" l'amica Harriet, il corteggiamento di Emma da parte del viscido Mr Elton, destinato a fallire e a portare quest'ultimo a sposare l'altrettanto viscida Miss di cui ci si scorda subito nome e cognome, il fidanzamento segreto tra l'affascinante e frivolo Franck e l'algida e riservata Jane, l'ipocondria di Mr Woodhouse, le chiacchiere incessanti della signorina Bates - l'immancabile zitella -, il discorrere sul brutto tempo, le carrozze e i cavalli, e l'avvenimento "clou" della stagione, il ballo alla Locanda Corona... il tempo passa lentamente e alla fine succede l'unica cosa che poteva succedere, la protagonista sposa il personaggio che le stava accanto fin dalla prima pagina e che non si era mai mosso da lì. Come negli altri romanzi della Austen, ci si ferma davanti all'altare; oltre non si va; non sapremo mai che tipo di coppia saranno Emma e Mr Knigthley; possiamo solo immaginarlo, poiché l'autrice non si avventura a descriverne le sorti. Solo in un caso, alla fine di "Orgoglio e pregiudizio", nell'accennare qualcosa sulla vita di coppia di Lizzy e Mr Darcy, la nostra scrittrice si sbilancia un po', prendendola, peraltro, alla larga, e partendo dal rapporto tra le cognate Georgiana e Elizabeth:
"Georgiana teneva in gran conto Elizabeth, anche se da principio aveva giudicato con uno stupore che rasentava lo spavento la sua vivace, disinvolta maniera di parlare col marito. Vedeva suo fratello, da lei trattato con un rispetto che superava quasi l'affetto, preso in giro con affettuosa allegria. Imparava, dall'esempio di Elizabeth, quello che non avrebbe mai creduto prima, e cioè che una donna può prendersi col marito delle libertà che un fratello non può permettere a una sorella più giovane di lui di ben dieci anni".
E noi? Com'è che a quasi duecento anni di distanza noi del "club", donne moderne, single, sposate, mamme, fidanzate, single di ritorno, impegnate con lavoro, casa e famiglia, ci appassioniamo ancora alla discussione dei piccoli intrighi amorosi e dei pettegolezzi austeniani? Forse è perchè, in un certo senso, ce li portiamo dentro intatti, quasi che i secoli non fossero passati, a costruire un piccolo, ideale rifugio per i nostri affanni. Oggi le cose vanno assai diversamente rispetto ai tempi (e all'ambiente) di Jane Austen, ma c'è una parte di noi - un angolino del nostro cuore - che vorrebbe almeno provare a trascorrere interi pomeriggi accanto al caminetto a ricamare e a parlottare dell'ultima famiglia arrivata a far parte del vicinato, per poi concludere la serata giocando a whist o suonando e cantando per le nonne, le zie e i vicini di casa in visita. 
Magari non reggeremmo a lungo e dopo una settimana di simili passatempi ci dichiareremmo irrimediabilmente stufe e torneremmo volentieri alle nostre giornate super impegnate. O forse, chissà, i ritmi pacificati e lenti di quella esistenza fuori dal tempo pian piano ci conquisterebbero...
Comunque sia, la suggestione di quel quadretto - noi in abito lungo e cuffietta che ci aggiriamo per una grande casa di campagna preparando tè, scrivendo lunghe lettere all'amica del cuore, ricamando e cucendo sedute di fronte alla finestra, le dita attente all'ago e il pensiero che continuamente torna a quella certa frase pronunciata dall'affascinante proprietario della tenuta vicina  - è molto, molto potente.   

venerdì 21 ottobre 2011

Lettori in viaggio / 3

LA MAMMINA
Treno delle 7.09.
Mi siedo di fronte a una giovane donna immersa nella lettura. Tiene il libro bello alto, il titolo si legge senza difficoltà: Ken Follett, Una fortuna pericolosa. E’ molto concentrata, un bip che se ne esce dalla sua borsa l’avvisa dell’arrivo di un messaggio sul telefonino ma lei imperterrita continua a leggere. E’ magra, ha i capelli castano chiari, lunghi, lisci, con la frangetta; indossa un maglioncino di ciniglia verde squillante, con il cappuccio e la zip davanti. Pantaloni di un colore indefinito tra il verde e il grigio, attillati e a vita bassa; infatti tra il golfino verde e i pantaloni se ne spunta una striscia di carne abbronzata. Indossa dei sandalini che le lasciano quasi tutto il piede scoperto, a laccetti di perline argentate. Sul seggiolino accanto al suo una borsetta di un colore indefinito, tra il verde chiaro e l’oro, e una grande borsa di tela blu scura, con il logo di Hello Kitty, che deve essere piena di cose e dalla quale spunta il collo di una bottiglia di acqua minerale.
Si riscuote improvvisamente, prende il telefonino dalla borsa, digita svelta un numero.
“Ehi mamma sono io, ti volevo dire che Edoardo va lì da Grazia oggi, così se  ti vuoi organizzare per il pranzo e vuoi uscire… ieri sera sono tornati tardi, a mezzanotte… era così contento, con quella bandiera tutta imbrattata di gelato… voleva che gliela lavassi! Gli ho detto figurati se mi metto a mezzanotte a lavarti la bandiera…Insomma hai capito? Semmai vai con Matteo… tanto hai solo lui, te lo puoi portare anche dietro che da solo non ti da noia… Ciao mamma…”
Riattacca e si rimette a leggere. A Firenze Rifredi raccoglie le sue borse e scende; la vedo in piedi, è davvero molto magra.
(mercoledì 7 settembre 2011)

LA GIOVANE DONNA DI MONDO
Regionale delle 18.28 per Livorno. Davanti a me una giovane donna magra, tutta vestita di jeans e con le scarpe da ginnastica. Capelli lunghi e lisci, scuri, unghie laccate di chiaro. Una gran borsa bianca appoggiata sulle ginocchia. Sopra un libro aperto, con copertina cartonata. E’ arrivata quasi in fondo. Le squilla il cellulare, risponde e chiude il libro. “Il cacciatore di aquiloni.” Di Khaled Hosseini.
“Ehi, ciao! Eh? Cosa dici? Cosa cosa? Che ti ha detto? No… non è possibile, non esiste! Ma vedrai che sarà la disoccupazione… io codesta non l’avevo mai sentita dire. Si, guarda, ci mancherebbe altro, sennò va a finire che guadagnano più di noi! Vedrai sarà la disoccupazione, eh sennò è una barzelletta.”
Breve pausa. Risate.
“Ah si? Eh ormai gli mancavi solo te… si anche io c’ero uscita l’anno scorso… si lo sapevo che era solo…Vai, ci si sente domani…così mi racconti.”
Ripone il cellulare nella borsa e si rimette a leggere.
Dopo un po’ il telefonino squilla di nuovo.
“Ciao… si è andata di pomeriggio… doveva prendere ferie ma è andata lo stesso… è un periodo che non sta tanto bene, ha la pressione bassa. Ieri sera non siamo nemmeno uscite. Domani sera va a una festa… semmai sentila… io si, tutto bene… te ieri? Aperitivo tutto bene? Ah… si… ah… e quando torna? Ah lunedì…  ma il campionato quando ricomincia? Eh bè c’è ancora un po’ di tempo…bene così ti rimetti perfettamente… si domani arrivano i suoi genitori dalla Sardegna… si ho visto il meteo e domenica andremo al mare…ma credimi io non vedo l’ora di farmi un bel fine settimana a Firenze… di andare di sabato al mercato a Scandicci… va bene ci si sente… Ciao ciao ciao…”
Riabbassa e si rimette a leggere. Ma il cellulare suona ancora.
“Sono in galleria… se cade la linea è per quello. Come sta il bimbo? Ah… ma la tua sorella è rientrata al lavoro? Ah si? L’ha messo al nido… bene… fino al compimento dell’anno del bambino…eh si. Noi in questi giorni stiamo a Firenze… no venerdì no, perché, hai visto, lui rientra tardi… semmai sabato prossimo… si e se senti la Debora si fissa anche con lei. Ah si? Bellino! Eh ci credo, lo farei anch’io…bene, ci si sente… ciao ciao ciao”. Mentre mi preparo a scendere, il cellulare le squilla di nuovo e vedo che prima di rispondere ripone il libro nella borsa.
(venerdì 23 settembre 2011)

martedì 11 ottobre 2011

Le interviste impossibili / Charles Bukowski

Cristina Preti: Buon giorno…
Charles Bukowski: Hmmm (grugnito)
C.P.: Buon giorno! (forse non mi ha sentito)
C.B.: Hmmm… hmmm… chi è che rompe a quest’ora?
C.P.: Ma…e’ quasi mezzogiorno. La sua segretaria mi aveva detto…
CB: Chi? La mia segretaria? Non ascolti quella baldracca. Non sa quel che dice.
C.P.: Ma io pensavo che… l’avesse avvertito… che le avesse messo l’appuntamento in agenda.
C.B.: Cosa? Agenda? Non mi venga a scassare con questi concetti difficili… mi sono appena svegliato e ho un mal di testa colossale. La segretaria. Quella vacca devo licenziarla prima possibile.
C.P.: Cosa faccio allora? Vado via?
C.B.: Ma no, venga, si sieda. Facciamoci un goccetto.
C.P.: Cosa? Un goccetto? Non vorrei sembrarle scortese, ma… a quest’ora io di solito non bevo…
C.B.: A quest’ora, a quest’ora… che stupido concetto borghese. Cosa le dice il suo corpo? Non le dice forse che ci starebbe proprio bene un bicchierino di whisky? E allora lasci perdere l’orologio! Quest’ora, quell’altra… un goccetto va sempre bene.
C.P.: Mi scuso di nuovo, ma non posso proprio accettare. A parte l’orario, i superalcolici mi fanno male, ho il colesterolo alto e il medico dice che…
C.B.: Gesù, chiuda quella bocca! Quando sento parlare di medici mi viene da vomitare. Senta, faccia un po’ come vuole, io mi faccio un whisky. Quanto a lei, se vuole favorire, il mobile bar è lì. Si serva da sola.
C.P.: Bè, lasciamo perdere. Tanto non è che fossi venuta per bere.
C.B.. (si scola il whisky che si è appena versato) Ah! Adesso sì che si comincia a ragionare! (Torna a guardarmi) Non è venuta per bere? E allora che cosa vuole?
C.P: Bè, non è facile da spiegare… è che … insomma… so che lei è stato impiegato in un ufficio postale… volevo sapere come… come faceva a … insomma, lei è uno scrittore così famoso, mi interesserebbe sapere come è stato capace di… Vede… io… Bè anche io scrivo. Però non è il mio mestiere, nel senso che per guadagnarmi da vivere faccio altro… lavoro in pubblica amministrazione. E appunto ero curiosa di sapere da lei come ha fatto a…
C.B: Si, si, ho capito… scrittura e lavoro… guardi, dopo queste parole non mi resta che farmi un altro bicchiere. (si versa ancora whisky, lo beve d’un fiato). Dunque, signorina, lo ha letto  il mio romanzo Post Office?
C.P.: Mi spiace confessarglielo, ma… non è che il suo genere rientri proprio tra i miei preferiti e quindi…
C.B.: Mi pareva, infatti. Lei è una tipa troppo per benino. E quindi non lo ha letto. Peggio per lei. Non mi frega proprio nulla.
C.P. Ma… perché mi chiede se ho letto Post Office?
C.B. Perché così capirebbe tante cose.
C.P. Cioè potrei capire come ha fatto a conciliare lavoro e …
C.B. Ah ah ah! (ride così forte che devo zittirmi. Gli va qualcosa di traverso e si mette a tossire come un cane incimurrito. Tossisce talmente forte che diventa tutto rosso, sembra stia per soffocare.  Sputa. Tossisce. Ride. Tossisce ancora.) Ah ah ah… Conciliare… com’è che ha detto? Quant’è carina lei. Dia retta, legga Post Office e capirà tante cose.
C.P. Capirò come è riuscito a…?
C.B. Certo. Lo capirà benissimo. Ma non si tratta tanto di conciliare lavoro e scrittura… (ride di nuovo, però, stavolta, brevemente.) Ma lavoro e vita. Il lavoro è nemico giurato della vita. Della vita vera, intendo, della vita dedicata alle cose che ci piacciono. Per me, bere e… bè, davanti a una signorina così per bene non posso esprimermi come vorrei. Diciamo bere e star dietro alle donne. E per quanto riguarda lei…
C.P.: Per me scrivere, decisamente. L’ho capito da poco, ma è così. Vorrei soprattutto scrivere. Ma devo lavorare e non sempre trovo il tempo per …
C.B. Guardi, le consiglio di nuovo: legga Post Office.
C.P.: E lì troverò quali erano i suoi trucchi.
C.B.: Come no! Troverà i miei trucchi. Ah ah ah! Io lavoravo meno possibile.
C.P.: Cosa?
C.B.: Certo. Proprio così. Bevevo continuamente e mi presentavo al lavoro sempre ubriaco. Spesso arrivavo in ritardo. Certe volte invece di lavorare andavo in giro per i fatti miei. E se proprio non ce la facevo, me ne stavo a casa, a smaltire la sbornia e a ubriacarmi di nuovo.
C.P.: Eh ma io… io non potrei di certo comportarmi così. Io al lavoro ci devo andare, eccome… e poi adesso, figuriamoci, con il Ministro per la Pubblica Amministrazione che ci ritroviamo… al minimo sgarro …
C.B.: Ma se ha così paura non combinerà mai nulla.
C.P.: Vorrei vedere lei. Non si tratta di aver paura, si tratta di aver bisogno di mantenersi un lavoro. Non posso mica rischiare di beccarmi una nota disciplinare per…
C.B.: Ma sa quante ne ho prese, io, di note disciplinari?
C.P. …
C.B.: Parecchie. E infatti alla fine mi hanno licenziato.
C.P.: Ah si?
C.B.: Certo che si.
C.P.: Temo che i suoi consigli, allora, non mi siano di grande aiuto.
C.B.: Temo anche io, se quel che vuole è conservare il posto di lavoro. Vada da Trollope, che era un impiegato postale modello… o da Kafka, che faceva l’assicuratore. Qualcuno così. La mia esperienza non le servirà proprio a nulla.  
C.P.: Mi scuso… io pensavo che…
C.B. Ah ah ah! (ride sguaiato, si versa altro whisky e lo beve.) Vada, vada. E legga Post Office.
C.P. Allora arrivederci. Spero che anche lei abbia modo di leggere il mio romanzo…
C.B.: Ah, quindi ha già pubblicato un romanzo! E come si intitola?
C.P.: “La donna che morì bevendo caffè.”
C.B.:Ah ah ah! (ride, e la risata diventa talmente violenta che quasi lo soffoca. E’ tutto rosso. Sputa, tossisce. Gli occhi gli lagrimano.)… bevendo caffè… che ridicolezza… bevendo… caffè…

giovedì 6 ottobre 2011

Lettori in viaggio / 2

LA RAFFREDDATA, L’INGLESE, IL TOPO DI BIBLIOTECA E L’ARCHITETTO
Sul treno delle 7.09 per Firenze. Accanto a me si siede una ragazza alta, giovane, con i capelli castani e lisci, gli occhiali, pelle del viso molto bella, levigata e bianca, mani curate con unghie laccate di colore scuro. Ha degli orecchini a pendente lunghi, una fila di pietrine scure  (corniola?) tra le quali ne spicca una color ambra. All’anulare destro un anello d’argento con un brillantino. E’ raffreddata; ogni tanto si soffia il naso. Ha narici sottili, eleganti. Estrae un libro dalla borsa e si mette a leggere: “Cent’anni di solitudine.” Le soffiate di naso diventano più frequenti. Si sta commuovendo?
Davanti a me un uomo sui quarantacinque, che in gioventù deve aver avuto i capelli chiari, biondi, ora in avanzata fase di ingrigimento. Occhi celesti.  Ha una faccia larga e lunga, da inglese, lo vedrei bene  con i favoriti recitare in un film tratto da Jane Austen. Ha una sciarpetta blu annodata intorno al collo, su un maglione scollo a V, anch’esso blu. Legge un libro dal titolo “Un corpo nel lago”, non riesco a decifrare il nome dell’autore, troppe consonanti, certo uno dell’Europa del nord, di quelli che vanno ora di moda,  magari uno svedese.
Accanto a lui un signore sulla cinquantina, tutto grigio: capelli abbastanza folti  grigio/bianchi, gilet a rombi grigi, neri e bianchi, pantalone grigio. Indossa un paio di occhiali molto spessi, rotondi, da topo di biblioteca. Legge un tascabile della serie Urania, ma non riesco a distinguerne il titolo. E’ immerso nella lettura, tanto da stare con la faccia quasi dentro il libro, forse anche perché ci vede poco e ha bisogno di avvicinare molto gli occhi alla pagina. A Montelupo si riscuote,  inizia frettolosamente a prepararsi e scende a Lastra a Signa. 
Al suo posto si siede un passeggero appena salito sul treno, sui quarantacinque. Tipo freak: capelli castano-grigi, lisci, un po’ lunghi, pettinati con la divisa nel mezzo. Occhiali rettangolari, baffi e barba quasi completamente bianca. Indossa una camicia a righe colorate sotto una giacca blu, la camicia è sbottonata al collo. Porta una sciarpa a righe blu scure, oro e bordeaux. Indossa un cappello di feltro bordeaux, morbido, e se lo toglie subito dopo essersi seduto. Lo immagino architetto, o forse restauratore. Ha in mano un libro, un volumetto dalle pagine patinate, non tanto corposo, illustrato. Si mette subito a leggerlo: “Le Madonne di Vitale”.
L’inglese che legge noir svedesi scende a Firenze Rifredi. Io, la ragazza raffreddata e l’architetto a Firenze Santa Maria Novella.
(Giovedì 10 febbraio 2011)

IL PATRIOTA
Treno del mattino. Mi siedo di fronte a un signore immerso nella lettura. Un libro di grande formato con la copertina cartonata e la sovraccoperta. Antonio Caprarica, “C’era una volta in Italia”. I colori dominanti della copertina sono il bianco, il rosso e il verde. Il signore si aggira sui cinquantacinque/sessanta, ha la faccia larga e tonda, capelli corti grigi, con attaccattura alta sulla fronte, piccoli occhiali dalla montatura dorata, irrimediabilmente fuori moda. Passiamo da Montelupo e lui, all’improvviso, chiude il volume, se lo appoggia in grembo, serra gli occhi e si addormenta.
(lunedì 14 febbraio 2011)

venerdì 30 settembre 2011

Un caffè con Martin Eden

Il primo luglio 2011 c’è stata la prima presentazione del mio romanzo, alla libreria Martin Eden, a Fucecchio, dopo cena, nell’ambito delle iniziative estive con l’apertura serale dei negozi. Un’atmosfera da festa di paese, a un certo punto si è sentita anche la banda che suonava in piazza; noi seduti a un tavolino davanti alla libreria, per strada, clima tranquillo. Mi presenta Riccardo Cardellicchio, un nome  storico del giornalismo della nostra zona, un tipo decisamente toscano. Quanti anni ha Cardellicchio? Più o meno quelli che avrebbe il mio babbo, una settantina. Mi fa domande intelligenti, si sente che il libro lo ha letto tutto e davvero, e chissà, magari gli è anche piaciuto. Ma questo non lo dice. Vecchia volpe.


Pochi giorni dopo parto per il mare. Una sera, girando tra le bancarelle dell’immancabile mercatino, tra i libri usati scorgo il “Martin Eden” di Jack London. 1 euro. Però! Affare fatto. Per leggerlo mi ci vuole un po’ di tempo, è un volume non breve, richiede attenzione e sotto l’ombrellone non è che ci si possa concentrare più di tanto. Ma non mollo, e Martin Eden mi conquista.
Jack London lo scrisse quando aveva trentatrè anni, nel 1909, e vi narrò la sua propria storia, celandosi dietro il personaggio dell’aitante giovane marinaio californiano che decide di diventare scrittore e si sottopone ad ogni tipo di sacrificio e privazione pur di raggiungere il suo scopo. Le pagine in cui viene descritta la vita grama dell’aspirante scrittore sono terribili; le ore passate a leggere, studiare e scrivere, i digiuni per la mancanza di soldi, le veglie, le inutili spedizioni di manoscritti a riviste e case editrici, i pochi beni al monte dei pegni, la difficoltà di portare avanti le relazioni sociali e soprattutto la sua storia d’amore con la borghese Ruth; dalla quale, talvolta, non può nemmeno recarsi in visita, avendo dovuto impegnare il solo abito scuro in suo possesso, già un po’ liso e consunto, ma comunque unico suo capo d’abbigliamento “presentabile”.  E, a fronte di tutto questo, la volontà incrollabile di “farcela”. E quando tutto sembra davvero essere perduto, quando la fame sta per avere il sopravvento sul fisico ormai indebolito di Martin, quando anche Ruth lo ha lasciato, ecco che, improvvisamente, il destino prende a girare in senso inverso, le cose ingranano, e in breve tempo il miracolo si compie; e Martin Eden diventa uno scrittore famoso, riconosciuto, pagato e strapagato. Tutti, adesso, lo cercano, lo vogliono, sono disposti a lodarlo. Persino Ruth torna da lui, per proporgli di ricominciare.  Martin, però, non è sereno. Ricco e famoso, si aggira in quel suo nuovo mondo spaesato e insicuro, chiedendosi continuamente: “Ma perché adesso tutti si comportano così diversamente rispetto a prima? Io non sono cambiato! Sono la stessa persona!”
Si sente amato e ricercato non per quello che è – dato che è esattamente lo stesso di quando tutti lo rifiutavano – ma per quello che è diventato. E questa amara consapevolezza  non gli dà tregua, lo soffoca.
E così, decide di mettersi in mare e partire, per un viaggio da cui – forse – non farà mai più ritorno...
Bello questo romanzo, bello Martin Eden. Sono contenta che “La donna che morì bevendo caffè” sia stato presentato per la prima volta in una libreria che porta il suo nome. Se i due si fossero conosciuti – Martin e La donna, intendo – probabilmente sarebbero diventati amici…


lunedì 26 settembre 2011

Le interviste impossibili/ Alessandro Manzoni

Cristina Preti: Buon giorno, Maestro. Posso chiamarla così?
Alessandro Manzoni: Faccia pure. Sa un po’ di direttore di coro, o di banda, ma può andare.
C. P: E’ che non so come ci si debba rivolgere a lei. Professore? Dottore?
A.M: Lasci perdere, è meglio. Vada per Maestro e chiudiamola qui.
C. P.: Bene, Maestro. Immagino che lei non ne possa più di interviste.
A.M.: Guardi, ne ho rilasciate talmente tante che ormai non ci faccio più nemmeno caso. Speravo che dopo la mia dipartita dal mondo terreno la gente si placasse, e invece niente. Mi tormentano anche qui, vengono a intervistarmi dal passato e dal presente. Anche dal passato remoto, intendo; l’altro giorno si è presentato Platone, voleva parlare con me dell’amore platonico.
C.P.: E lei cosa gli ha risposto?
A.M.: L’ho cacciato, ero di malumore. E lei, invece, di cosa vorrebbe parlarmi?
C.P.: Io veramente vorrei parlarle di qualcosa di molto terreno, nulla a che vedere con l’amore platonico o simili. Volevo parlare con lei dei suoi venticinque lettori.
A.M.: Cosa? Scusi, ma a me, l’autore dei Promessi Sposi, il romanzo italiano per eccellenza, dell’Adelchi, della lirica che inizia con quell’incipit memorabile,  “Ei fu…”  e che contiene il celeberrimo verso “Ai posteri l’ardua sentenza”, a me, dico, vuol chiedere questa sciocchezza… cos’è che ha detto? I venticinque lettori!
C.P. : Sarà anche una sciocchezza, esimio Maestro, ma l’ha scritta lei… le cito testualmente: dai Promessi Sposi, capitolo 1. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto quello che s’è raccontato.”
A.M. Ah, ma vabbè, era una forma retorica, una espressione di modestia…
C.P. Ah sì? Ma io pensavo che questa storia dei venticinque lettori fosse vera.
A.M. Non nego che, all’inizio, avevo una gran paura di non vendere il mio romanzo e temevo di poter contare al massimo su una ventina di lettori. Subito dopo la pubblicazione tempestavo l’editore di chiamate per sapere come andavano le vendite. Ma le risposte dell’editore, ecco, come dire? Mi rassicurarono subito. “I promessi sposi” diventò immediatamente un best-seller. Ma… di grazia, perché le interessa questo particolare?
C.P. Maestro, anche io ho scritto un libro.
A.M. Ah si? E di cosa tratta?
C.P. Si intitola “La donna che morì bevendo caffè”. La storia del rapporto tra una madre e un figlio, ricostruita da quest’ultimo dopo la morte della madre.
A.M. Tutto qui? Non ci sono altri intrecci?
C.P. Bè è un tema vasto, le assicuro…
A.M. Eh, ma benedetta ragazza, avrebbe dovuto ampliarlo un po’… ci sono intrighi?
C.P. Forse… qualcosa…
A.M. Com’è morta questa signora? L’hanno uccisa?
C.P. Dovrebbe leggerlo per scoprirlo…
A.M. Ci sono potenti che tramano alle spalle dei protagonisti?
C.P. Potenti? Ma no, è una storia di ambiente borghese…
A.M. C’è un bel quadro storico di riferimento?
C.P. E’ ambientata al giorno d’oggi…
A.M. E qualche prete, c’è? Una monaca? Qualche alto prelato, magari corrotto…
C.P. In verità no… però io mi chiamo Preti… forse può essere sufficiente…
A.M. Suvvia, non faccia la burlona. Mi sembra di capire che sia una storia un po’ esile. E perché voleva sapere dei miei venticinque lettori?
C.P. Così… per un confronto. E’ che ho l’impressione di conoscere uno per uno chi ha comprato il mio libro… sa, abito in una cittadina piccola, di provincia… in libreria mi conoscono. Quando mi vedono le commesse mi aggiornano subito… ne abbiamo vendute due copie… una alla moglie del commercialista Tale, una alla moglie dell’ avvocato Talaltro…
A.M. Comunque un pubblico qualificato, sento… liberi professionisti…
C.P: L’altro giorno, ero sul treno, ho ricevuto un sms da una mia cara amica. Diceva: “Sono in libreria e assisto in diretta all’acquisto del tuo libro!” Subito le ho risposto chiedendole: “E chi lo sta comprando?” E lei: “Mezz’età, alto, un po’ freak, capelli grigi ricciuti”. Guardi, Maestro, non ci dormo la notte su questa descrizione, non riesco a capire chi possa essere. Un po’ freak! Mai frequentati fricchettoni in vita mia. Mi sento quasi offesa.
A.M: Un consiglio: se vuole vendere, non si offenda di nulla. Guardi me; gli studenti  italiani mi odiano perché il mio romanzo viene fatto leggere a scuola e per il semplice fatto che si tratta di una lettura imposta dai programmi ministeriali se potessero mi darebbero fuoco. Ma io non mi offendo delle loro imprecazioni e dei loro accidenti, che pure mi raggiungono tutti. Non mi offendo affatto  perché intanto sono state acquistate migliaia e migliaia di copie del mio romanzo. Anche da quassù percepisco i diritti d’autore sa? Avevo firmato un contratto molto, molto lungimirante.
C.P. Insomma, cosa devo fare?
A.M. Ma secondo i suoi calcoli, a quanti lettori siamo col suo romanzo… Il caffè della donna che morì bevendo…
C.P. No, Maestro, “La donna che morì bevendo caffè.” Guardi, secondo i miei calcoli dovremmo essere a ventidue.
A.M. Compreso il tipo freak.
C.P. Si, compreso il fricchettone.
A.M. Non saprei cosa dirle. Come sa, funziona il passa-parola… uno lo legge, lo dice ad un altro… certo che il tema dovrebbe essere un po’ più interessante… benedetta ragazza! Se almeno lo avesse ambientato ai tempi della prima o della seconda guerra mondiale, avrebbe potuto farlo adottare come libro di testo nelle scuole medie…
C.P. Niente da fare, c’è pure una scena di sesso; non mi pare il caso di proporlo agli studenti.
A.M. Guardi, non so che dirle. Intanto me ne porti una copia, vedrò cosa posso fare. Ehm… quanto ai  suoi ventidue lettori… ecco… le do dei buoni sconto del 20% per l’acquisto dei Promessi Sposi, l’ultima edizione con i commenti critici più aggiornati… se vuole distribuirli a questi suoi 22 amici… non si sa mai… gli italiani dovrebbero tutti possedere almeno una copia del mio romanzo, ma può accadere che…
C.P. Va bene Maestro, distribuirò ai miei 22 lettori i suoi buoni… e per quanto riguarda il mio libro?
A.M. Le farò sapere… le farò sapere…

sabato 24 settembre 2011

Lettori in viaggio / 1

IL GIGANTE BUONO
Mattina presto. Sul treno per Firenze. A Montelupo sale un ragazzo che si siede davanti a me e subito si mette a leggere. E’ un tipo corpulento, davvero grosso, con la fronte ampia, una gran massa di capelli biondi ricciuti e lunghi, legati a coda di cavallo. Ha gli occhi chiari, baffi e barba alla Cavour, una faccia liscia, rosa, giovane, occhialini dalla montatura piccola e dorata, che però per leggere si è tolto. Ha le mani paffute; sembrano mani di bambino, solo un po’ più grandi.  Indossa un ingombrante cappotto di pelle nera. Legge un libro in edizione economica, ne sbircio il titolo: Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” e “Ritorno sul Don”, riuniti in un unico volume. E’ molto concentrato nella lettura. Lo immagino buono, politicamente impegnato e di sinistra, colto, curioso. Non stacca gli occhi dal libro per tutto il viaggio; soltanto pochi secondi prima che il treno si fermi a Santa Maria Novella chiude il volume, si alza, lo infila in una tasca del cappotto e si prepara a scendere.
(Venerdì 10 dicembre 2010.)

LA FIDANZATINA
Ragazzina salita a Signa. Ha uno zaino leggero, è sola. Probabilmente va a scuola, deve essere al primo anno delle superiori. Indossa un cappottino di panno blu scuro e dal collo e dalle maniche spunta un maglione sempre blu a lana grossa. Ha i capelli lunghi, di un bel castano, mossi, con le punte a boccoli. Le guance rotonde da bambina, labbra tumide, pelle dalla grana biscottata, senza un filo di trucco. Estrae dallo zainetto un libro dalla copertina azzurra e si mette a leggerlo. “La ragazza di Berlino”, di Anne Wiazemsky. Le suona il cellulare. Risponde con una voce squillante, anche se il modo di parlare è pacato, tranquillo. Forse un fidanzatino; lei chiede subito: ”Sei davanti alla scuola?” e aggiunge “Ti sei fatto i capelli lisci stamani?” Poi risponde alle domande dell’altro. “Non avevo voglia di ripassare la lezione. Sto leggendo.” E poi ancora “Come, cosa leggo? Leggo il libro. Il libro mio.” Quando spenge il cellulare resta per un po’ con lo sguardo perso al di là del finestrino, il libro chiuso in grembo. Poi riprende a leggere.
(Mercoledì 12 gennaio 2011)

LA DONNA PRATICA
Sul treno delle 17.38 che mi riporta a casa.
Siede davanti a me una donna non giovanissima ma neanche vecchia, sui quarantacinque. Tipo sportivo, non molto curato; felpa blu piuttosto vissuta, jeans, scarpe tipo sneakers color marrone, giubbotto nero imbottito con pelliccetta al collo. Capelli rossicci, lisci, fini, a caschetto, con ricrescita bianca abbastanza evidente, occhiali dalla montatura rettangolare. Viso struccato, naso un po’ arrossato in punta. Per un po’ sonnecchia, si guarda intorno. Poi estrae un libro, la copertina sul davanti è blu, dietro gialla. “La civiltà villanoviana.” Inizia a leggere. Le squilla il cellulare. Comunica che siamo all’altezza di Montelupo, dà direttive per la spesa; non nomina nessun prodotto, si limita ad approvare la lista proposta dall’altra parte, dicendo a un certo punto: “Basta così, sennò poi avanza e ci tocca buttar via la roba.” E ancora: “Se vuoi comprarlo fallo pure, ma solo per te, costa un’esagerazione e io non ci trovo nulla di speciale.”
(Venerdì 14 gennaio 2011)