mercoledì 5 agosto 2015

Shining, di Stephen King

Non avevo mai letto nulla di Stephen King, eccezion fatta per “On writing”, una sorta di autobiografia del mestiere, in cui lo scrittore americano parla dell’arte dello scrivere pur senza comporre un manuale di scrittura. Quel libro mi era piaciuto molto; stile piacevole, formula originale  - un po’ diario, un po’ confessione, un po’ chiacchierata – e poi tanti consigli utili sulla scrittura, semplici, diretti, veri, tipo: Se volete fare gli scrittori, ci sono due esercizi fondamentali: leggere molto e scrivere molto. Non conosco stratagemmi per aggirare questa realtà, non conosco scorciatoie. Però non avevo letto nemmeno un suo romanzo. Le sue tematiche non mi attraggono, l’horror non mi ha mai interessato né in letteratura né al cinema, il soprannaturale proprio non rientra tra le mie preferenze saldamente ancorate alla realtà delle cose, dei fatti e delle persone. Però mi sembrava brutto non aver letto nulla di un autore così prolifico e di successo, molto amato, tra l’altro, da mio fratello e da mio figlio… e così mi sono decisa, e ho scelto di leggere “Shining”. Sono sicura che la visione del film non la reggerei – i film di paura mi fanno, appunto, troppa paura – ma pensavo che la lettura del libro avrebbe potuto appassionarmi. Però devo ammettere che così non è stato. Non so perché, credo molto abbia a che vedere col fatto che la mia è una natura estremamente realista e se mi vengono a raccontare che uno ha le visioni e riesce a rivivere le cose del passato o a vedere quel che succederà nel futuro la cosa mi lascia indifferente; a pensarci bene, sono gli aspetti propriamente fantastici delle narrazioni che proprio non mi attirano, per esempio quando nei romanzi succede che i personaggi raccontino i loro sogni, in genere scorro velocemente il passo, o addirittura lo salto del tutto. E così non ho simpatizzato con questo bambino dotato di potere extrasensoriale, lo “shine”, così come l’intera vicenda dell’entità sinistra che possiede l’Overlook Hotel e che finisce per
sopraffare il suo guardiano invernale impadronendosi di lui e portandolo alla morte non mi ha poi molto appassionato; insomma ho letto questo libro con un po’ di fatica. Il fatto è che mentre leggevo non riuscivo a immaginarmi le visioni, i morti che tornano, le voci che riecheggiano nei corridoi, i cigolii sinistri, proprio perché il mio cervello è refrattario alla dimensione fantastica e quindi non riesce a elaborare scene irreali. Riconosco che il libro è scritto bene e dal punto di vista letterario è un prodotto che non fa una grinza. Ma io non ne sono rimasta colpita, non mi ha coinvolta. Quando ho finito l’ultima pagina e, come faccio solitamente al termine di una lettura, mi sono chiesta quale fosse, per me, il nucleo centrale del romanzo, il tema fondamentale, insomma il messaggio che il testo mi ha fatto arrivare, ho creduto di scorgerlo nella riflessione sull’immortale tema del rapporto padre-figlio. Nel romanzo le forze del male cercano di impossessarsi sia del padre  - e alla fine ci riescono – che del figlio – il piccolo Danny, di soli cinque anni; ma quest’ultimo, che teoricamente dovrebbe essere il soggetto più debole e quindi più facilmente conquistabile, riesce ad opporsi all’attacco delle “presenze” fronteggiando, nel drammatico finale, il proprio padre ormai posseduto, e riuscendo ad avere la meglio su di lui. Il quale morirà tra le fiamme dell’Overlook Hotel mentre Danny si metterà in salvo con la mamma. Per crescere bisogna uccidere il proprio padre, o farlo perire tra le fiamme, insomma inventarsi qualcosa per liberarsene... il tutto metaforicamente, s’intende…    

Nessun commento:

Posta un commento