lunedì 25 novembre 2013

La nota segreta di Marta Morazzoni



La nota segreta
Marta Morazzoni

Ho avuto l’impressione che questo libro mi aspettasse, aspettasse proprio me.
“La nota segreta” è la storia di un amore assolutamente  - apparentemente - impossibile tra una suora e un diplomatico inglese. Tra l’altro, storia realmente accaduta, nel 1736, a Milano, dove avviene l’incontro fatale, nella chiesa del monastero di Santa Radegonda. Il particolare che mi ha reso cara questa storia, e che ne è, poi, il tratto distintivo, è che, date le circostanze, l’incontro non avviene tra i due protagonisti, ma tra il protagonista maschile e la voce della protagonista femminile. Infatti il diplomatico inglese John Breval si innamora della voce della giovanissima Suor Paola ancor prima che di lei, udendola dalla chiesa mentre dietro la grata che separa le monache dal mondo intona, assieme a un’altra suora più anziana, anch’essa cantante e dotata di un raro talento musicale, lo Stabat mater di Pergolesi. Pergolesi morì proprio nel 1736, a Pozzuoli, appena ventiseienne, e lo Stabat mater è la sua ultima  - sublime – composizione. Suor Paola e la suora più anziana, Suor Rosalba, ne sarebbero state, quindi, tra le primissime interpreti.
Suor Paola ha voce di contralto, e a questa voce lo Stabat mater pergolesiano affida pagine di commovente bellezza, con una linea di canto che sovente si colloca nelle zone basse della tessitura e che valorizza i toni cupi e brumosi del registro grave della voce femminile. John Breval, tipico gentiluomo inglese, diplomatico per di più, elegante e compito, frequentatore di salotti e fine conversatore, viene attratto, fino ad innamorarsene, non dalla voce cristallina e svettante del soprano, ma dall’altra, quella che sonda gli abissi del dolore e della desolazione.  Egli sente che quella voce – e soltanto quella – risuona nelle parti più recondite e forse insoddisfatte del proprio animo; e di quella si innamora, tanto da trovare il coraggio di concepire un ardito piano di fuga per strappare l’amata voce al convento e portarla via con sé, e disegnare così un nuovo futuro per entrambi – lui, che in Inghilterra ha moglie e figli, dovrà rinunciare alla sicurezza della famiglia e del suo prestigioso lavoro.
Ma non tutto va come dovrebbe andare, e i due innamorati affrontano varie traversie; anche se poi, come nelle più romantiche delle storie, il quadro si ricompone, e alla fine Paola ottiene persino lo scioglimento dai voti dalla sacra penitenzieria di Roma.  
E’ un romanzo fatto di silenzi, dato il carattere assai riservato dei due
protagonisti; silenzi che restano predominanti e che nemmeno il canto delle monache riesce a scalfire. In tali silenzi si inserisce spesso la voce della scrittrice, che non esita a intervenire in prima persona nella narrazione con commenti e osservazioni  che spesso servono anche a risolvere snodi narrativi complicati. A dire il vero, il finale del romanzo è un po’ in tono minore; gli eventi iniziano a rarefarsi ancor prima di giungere alla conclusione, che è tracciata quasi per accenni. Insomma, come succede spesso nei romanzi d’amore, il narratore accompagna i due protagonisti fino all’altare; quel che succede dopo non lo sappiamo… Ma non per questo il romanzo non mi è piaciuto, anzi. La storia è troppo suggestiva per non affascinarmi e i due protagonisti sono troppo innamorati a dispetto di tutto e di tutti per non guadagnarsi le simpatie dei lettori, me compresa ovviamente.   

Mi dicono che il Monastero di Santa Radegonda non esiste più, anche se è rimasta in piedi la Chiesa. Non escludo di recarmi in visita a tale chiesa, prima o poi, per omaggiare la memoria di due persone che per amore seppero rompere i sigilli delle rispettive clausure, reali o metaforiche che fossero.

PRIMA FRASE
Nel monastero di Santa Radegonda in Milano visse e operò, all’incirca dalla prima metà del 1700, tale Rosalba Guenzani, monaca benedettina. Suor Rosalba fu per un certo tempo il vanto del monastero, nota in tutta Milano e forse anche fuori dal confine della città e dello stato che era già nelle mani degli Asburgo. Era nota, la monaca, per avere una dote, la voce, e un talento musicale raro.

ULTIMA FRASE
“E’ vero, eminenza. Oggi abbiamo avuto, a portata delle nosre orecchie, le due più belle voci che si conoscano in Italia e non solo, e non ne abbiamo goduto che per cenni di parole. Che spreco! Anche per loro. Non canteranno mai più insieme. E forse non canteranno più, né a maggior gloria di Dio né per il bene degli uomini”, e il cardinal Petra scosse la testa. Era sinceramente dispiaciuto.

domenica 3 novembre 2013

N. di Ernesto Ferrero



Ernesto Ferrero
N.

Ho sempre amato Napoleone, di quell’amore che si concepisce sui banchi di scuola quando ci si imbatte in queste personalità storiche eccezionali. Perché? Non so. Sicuramente personaggi come lui destano ammirazione per le capacità strategiche, intellettuali e politiche dimostrate sul palcoscenico della storia, soprattutto a distanza di secoli, quando certi particolari, per esempio il numero esorbitante dei morti delle loro molte battaglie, tendono a passare in secondo piano rispetto ai loro disegni, ai loro progetti, e alle loro realizzazioni. Sicuramente ho amato la sua volontà di pensare in grande, di confrontarsi con la Storia, di agire al di là del giudizio sul proprio operato. Sospetto anche che alla base della mia predilezione per il Corso abbia avuto un certo ruolo la visione, da ragazzina, del film “Désirée”, in cui Napoleone è interpretato da Marlon Brando, attore che adoro da sempre. Infatti se mi devo raffigurare l’immagine di Bonaparte non è tanto ai quadri di David che penso, ma alle inquadrature del bel Marlon con virgolina di capelli sulla fronte e cosce strette in attillati pantaloni bianchi. Il film è del 1954 e a quell’epoca Brando aveva trent’anni, era al culmine della fama – dopo “Il selvaggio” e “Fronte del porto” - e della bellezza…  
Ma non divaghiamo. Lasciamo l’attore e torniamo al personaggio storico, e più
precisamente al romanzo N., scritto da Ernesto Ferrero e dedicato, appunto, a Napoleone. Il romanzo narra dei dieci mesi (maggio 1814 – febbraio 1815) che Napoleone trascorse all’Isola d’Elba, dopo che, sconfitto, ebbe abdicato a favore del figlio. Il trattato di Fontainebleau gli garantiva la sovranità sull’isola, e così poteva continuare a fregiarsi del titolo di Imperatore, anche se di un piccolo paese, con tanti abitanti quanti furono i morti in una soltanto delle sue battaglie (12.000, i francesi caduti a Essling del 1809), lui che aveva regnato su un territorio che si estendeva da Cadice a Mosca.
Nel romanzo si immagina che un notabile erudito dell’isola, Martino Acquabona, sia assunto come bibliotecario dall’Imperatore. Da mite umanista inorridito dagli orrori della guerra, Acquabona considera Bonaparte un mostro sanguinario, e ha concepito nei suoi confronti un odio profondissimo e viscerale. Odio che lo ha portato, nei quindici anni antecedenti l’arrivo di N. sull’isola, a collezionare ossessivamente tutto il collezionabile sull’eccezionale personaggio; volumi, stampe, oggetti recanti il suo ritratto, proclami, memoriali, libelli pro e contro, racconti e pettegolezzi di viaggiatori di passaggio.
Ma adesso che l’Orco – così chiamato dai suoi detrattori per via dell'enorme numero di “enfants” francesi che si era “divorato” nelle sue guerre - è sbarcato sull’isola e ha chiamato Acquabona accanto a sé, quella che era soltanto una figura odiata da lontano diventa protagonista della vita  quotidiana del bonario, ancorché tormentato, bibliotecario, un uomo da osservare da vicino e con cui confrontarsi continuamente. 
Napoleone ha sempre vissuto all’insegna della forza e del potere, mentre per il nostro bibliotecario, al contrario, uomo di lettere dedito allo studio speculativo, la vita è sempre trascorsa placidamente, come occasione di introspezione e meditazione, assolutamente scevra da eccessivi volontarismi. Non si potrebbero insomma immaginare due caratteri, due uomini e due destini più diversi e opposti; l’uomo pacato e quello aggressivo, il debole di fronte al forte, l’uomo di lettere e l’uomo d’azione, l’intelligenza e la sensibilità introversa dell’intelletto contrapposta all’intelligenza e alla perspicacia esuberante dello stratega.  
I due sono attratti l’uno dall’altro, anche se ciascuno a suo modo; Napoleone è soltanto incuriosito da questa figura di erudito taciturno, Acquabona viene lentamente, e suo malgrado, conquistato dall’Imperatore, forse per gli stessi motivi per cui ne sono rimasta conquistata io.  In particolare, sembra colpito dalla “normalità” che risiede nella “eccezionalità”; Napoleone è per molti aspetti un uomo come tutti gli altri, e in fondo è proprio questo che in genere conquista nei personaggi eccellenti, la scoperta del loro essere praticamente come noi; con la conseguenza che anche noi, quindi, potremmo aspirare ad essere eccezionali come loro. E questo ci piace, perché appaga il nostro amor proprio.
A un certo punto, però, la nascente simpatia del bibliotecario nei confronti dell’Imperatore subisce un duro colpo e Martino Acquabona, tornato al suo precedente sentimento di odio, ancor più esacerbato dalle circostanze,  giunge a progettare di ucciderlo. L’elemento attorno al quale ruota tutta la vicenda del rianimarsi del contrasto e della meditata vendetta di Acquabona è l’unico particolare che di questo romanzo mi è piaciuto poco, perché  si tratta di una donna – con cui il bibliotecario ha una sofferta relazione e che l’Imperatore, che presumibilmente non ne sa nulla, si porta a letto senza alcuna difficoltà. In un romanzo così bello e colto,  così stimolante da un punto di vista intellettuale, che ti fa venire voglia di riprendere i libri e di rimetterti a studiare, che ti fa meditare sui destini degli uomini e sul loro incrociarsi con i piani della Storia, avrei preferito che il contrasto tra i due protagonisti si mantenesse esclusivamente sul piano politico e cerebrale, senza che si andassero a scomodare sfere intime come quelle dei rapporti amorosi.
Non vorrei con questo sembrare troppo severa; il romanzo è davvero notevole. Martino non riuscirà ad attuare il suo proposito, e Napoleone scapperà dall’Isola dell’ Elba per andare incontro alla definitiva sconfitta di Waterloo. Resta da chiedersi se per Bonaparte non sarebbe stato meglio, e in certo senso più nobile, morire per mano di un bibliotecario geloso, piuttosto che consumarsi nell’esilio di Sant’Elena… ma dato che il personaggio di Martino Acquabona è di fantasia, l’interrogativo non si pone, e non ci resta che pensare che Napoleone è andato incontro all’unico destino per lui possibile.  

PRIMA FRASE:
Stava seduto al tavolo dello studiolo, di traverso. Sprimacciava con irritazione le carte che il generale Drouot gli aveva passato, il budget del 1815, come se tra quelle si fosse nascosto uno scarabeo o un cerambice, entrato per caso dalla finestra in cerca di tepore.

ULTIMA FRASE:
Mentre nuotavo felice con la mia preda mi è venuta in mente una frase dello zio: “Penso con sgomento che le isole non hanno altro domani che la partenza.”