giovedì 20 agosto 2015

Follia - di Patrick McGrath

Da tanto tempo volevo leggere questo libro. Lo ricordo appoggiato sul coperchio chiuso di un pianoforte verticale in casa di qualche amico, almeno quindici anni fa. Lo presi, scorsi velocemente la quarta di copertina, mi ripromisi di leggerlo. Poi rimandai, perchè stavo leggendo altro. Di rinvio in rinvio, di libro in libro, di anno in anno, finalmente quest'estate l'ho comprato e l'ho letto, con una aspettativa proporzionale al tempo trascorso da quella mia prima intenzione, e quindi, forse, un po' esagerata. La storia è nota. Siamo in Inghilterra, alla fine degli anni '50. Stella, moglie di Max Raphael, vicedirettore di un manicomio criminale, e madre di Charlie, descritta come una donna molto bella e sensuale, si innamora di un paziente recluso nell'istituto per aver ucciso (e decapitato) la moglie. Il sentimento è ricambiato e i due vivono una sorta di ossessione amorosa fino alle estreme conseguenze; lui scappa dall'istituto, lei lo segue, e per un periodo convivono in un sobborgo di Londra degradato e fatiscente. Edgar è un artista, uno scultore, che, lontano dal manicomio, cerca di riprendere la sua attività creativa plasmando una testa dell'amata, ma è anche un uomo ammalato, geloso e violento, che inizia a maltrattare e malmenare Stella, che si rifugia sempre più nell'acool. Le cose precipitano, i due vengono riacciuffati e ricondotti all'istituto, Stella deve seguire il marito che dopo lo scandalo viene trasferito a lavorare in un' altra struttura... nell'ultima parte del romanzo la vicenda vira decisamente al drammatico, come a sottolineare che la follia amorosa non può portare a nulla di buono se non al male e alla perdizione. La narrazione è condotta da Peter Cleave, psichiatra collega del Dr. Raphael, con il tono distaccato e freddo di chi ha dimestichezza più con le anamnesi e le diagnosi che con il racconto e l'analisi dei sentimenti. Tanti temi, tante suggestioni, tante riflessioni, che ruotano tutte attorno a un unico interrogativo, se l'amore possa - e debba - avere un senso o no.
La prima cosa cui questo romanzo mi ha fatto pensare è stata una frase di
Cesare Pavese tratta dal Mestiere di vivere: "Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre." La frase a dire il vero non si adatta esattamente a quanto narrato in Follia, perchè Stella non è certo spinta verso Edgar dalla volontà di salvarlo né lo percepisce come un "rottame". Però - e la seconda parte della frase di Pavese va comunque declinata invertendo i sessi - in questo libro un uomo non stupido trova una donna sana e la riduce a rottame. In nome appunto di quell' amore che forse è solo una follia... Le domande di questo libro restano senza risposta, o piuttosto con l'unica risposta possibile che è il titolo del romanzo stesso (che nell'originale è "Asylum", manicomio): amore come passione obnubilante, come voragine irrazionale, come pazzia ingovernabile.
L'aspetto di questo romanzo meno convincente, per me, è stato il tono narrativo. Probabilmente con la volontà di rendere una narrazione che fosse quasi un resoconto, una cronaca, un referto medico, lo stile resta piuttosto algido dall'inizio alla fine, ci sono pochissimi dialoghi, la materia non sembra mai "partecipata" ma, appunto, "relazionata". La vicenda è appassionante e i personaggi interessanti, ma non li ho mai sentiti vivi né mi sono affezionata a loro, cosa che di solito mi succede. Da qui il mio giudizio ambivalente su questo libro, che ho letto volentieri, ma che non rileggerei.

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