lunedì 24 settembre 2012

Eremo e filosofia / 3

VOLPE VERSUS RICCIO, OVVERO L’ENIGMA DI TOLSTOJ

All’Eremo di Montecastello (700 m a picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale con la filosofa Francesca Rigotti : “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa diversa.

“La volpe conosce molte cose, il riccio una sola, ma grande.”
Sul frammento dell’antico poeta greco Archiloco si basa un famoso testo di Isaiah Berlin, che assume l’ immagine come metafora delle differenze che distinguono gli individui e in base al quale, quasi fosse un gioco di società, Berlin provvede a classificare scrittori e pensatori posizionandoli nell’una o nell’altra grande famiglia di spiriti. I ricci riferiscono ogni cosa a una visione centrale, a un sistema coerente governato da regole precise; sono, in buona sostanza, monisti. Le volpi, al contrario, perseguono molti fini, talvolta contraddittori, senza riferirsi ad un unico principio morale o estetico. Il loro pensiero si muove su più piani e coglie una varietà di esperienze e di temi senza che ci sia, alla base, una visione statica. 


Come i ricci sono monisti, così le volpi sono pluraliste. La tentazione monista poggia sull’esigenza di superare la scissione attraverso la ricomposizione del tutto in una totalità pacificata. La concezione del riccio si basa su due convinzioni: primo, che il reale sia unitario e che riunisca in sé tutti i fenomeni (scienza, metafisica, religione ecc.), secondo, che esista una “situazione finale” in grado di conferire una unità a tutti i valori. Sono riconducibi pertanto all’idea monista la teologia, il socialismo, il platonismo, certo illuminismo. Le domande hanno una sola risposta, la strada per giungere alla verità è una soltanto, e tutte le verità parziali concorrono a formare un’unica, grande verità.
E il pluralismo della volpe, invece? La concezione è, evidentemente, opposta:per la volpe non l’unità, ma la pluralità rappresenta l’essenza del mondo, e non esiste situazione finale capace di garantire la soluzione armonica di tutti i problemi e di tutti i conflitti valoriali.
Il monismo è assai più diffuso del pluralismo, e mira alla ricerca di certezze unitarie, in grado di garantire un fondamentale senso di sicurezza. Berlin mette così in relazione monismo e agorafobia, ricerca filosofica dell’unità e ricerca nevrotica di un luogo chiuso e rassicurante.
Il pluralismo, al contrario, risulta spesso da una condizione di conformismo e chiusura intellettuale che genera richieste di maggiori aperture e si traduce in una rottura  con le vecchie fedi e le vecchie istituzioni. 
Berlin addebita al monismo dei ricci la responsabilità politica delle feroci dittature che hanno caratterizzato il XX secolo; in particolare, l’assunto da cui esse sono scaturite, tipico del monismo, è quello che possa esserci una soluzione finale in grado di risolvere tutti i problemi. Berlin è convinto che il nostro tempo non abbia bisogno né di fedi, né di certezze scientifiche, ma di un minor grado di formalismo e di zelo messianico; secondo lui, quindi, i nostri tempi hanno bisogno di scetticismo, sapientemente unito a una buona dose di tolleranza. Berlin preferisce il perfido Talleyrand (sourtout pas trop de zèle) al virtuoso Robespierre, pericolosamente duro e puro nella sua pretesa di uniformità.  
Quanto all’attribuzione all’uno o all’altro gruppo, secondo Berlin hanno agito da ricci Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen, Proust, mentre simili alle volpi sono stati Shakespeare, Erodoto, Aristotele, Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce, Montaigne.
Il caso più enigmatico risulta essere il mio amatissimo Tolstoj, che “era per natura una volpe, ma credeva fermamente di essere un riccio”.


Secondo Berlin, il dramma di Tolstoj consisterebbe nell’impossibilità di conciliare le sue due diverse anime: quella appassionata del moralista che difende la libertà dell’individuo, il suo impegno etico e civile, e quella distaccata del fatalista che considera con freddo realismo la complessità del divenire storico, le forze che in esso agiscono e lo dominano, secondo percorsi e leggi che spesso limitano la libertà umana e travolgono e vanificano l’ingegno dell’individuo. Tolstoj è quindi lacerato tra senso della realtà storica e ideali morali, “il più grande tra coloro che non sanno né conciliare né lasciare inconciliato il conflitto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere”. Berlin conclude con l’immagine a effetto di un Tolstoj che infine, come Edipo, si acceca, per non vedere ciò che ormai sa, e per continuare a professare quegli ideali morali di cui negli anni della vecchiaia diverrà il più radicale e strenuo difensore. 

Anche noi partecipanti al seminario veniamo invitati a individuare la nostra collocazione nell’una o nell’altra categoria: volpe o riccio? C’è chi si dichiara irreparabilmente volpe, ma grande ammiratore del riccio, e viceversa. Io non posso che considerarmi volpe; tutto in me – la mia storia, le mie predilezioni passate e presenti, le mie abitudini – concorre a definirmi tale. Ma francamente non credo di potermi dichiarare attratta o ammirata dall’essere riccio, dalla  sua capacità di ricondurre ad un principio unico il senso della vita, della storia, delle cose. E’ un criterio che decisamente non mi appartiene. Certo può essere invidiabile, in quanto sicuramente è in grado di garantire, se professato con assoluta convinzione, un senso impagabile di sicurezza e stabilità. Ma io lo percepisco come soffocante e nonostante tutto mi sento di difendere una concezione più dinamica, mutevole e flessibile della storia dell’uomo e del mondo, anche a rischio di una maggiore vulnerabilità e debolezza. Viva le volpi, e viva Tolstoj che di essere riccio “credeva” soltanto.

Isaiah Berlin, Il riccio e la volpe, Adelphi, 1998 


martedì 4 settembre 2012

Lettori in viaggio / 8



martedì 8 novembre 2011

LA SUDAMERICANA

Torno a casa con un treno del primo pomeriggio.
Davanti a me una donna dalla carnagione scura, tipo brasiliano; capelli castani striati di biondo raccolti strettamente sulla nuca, fronte ampia, zigomi larghi, naso pronunciato, pelle del viso con imperfezioni, bocca scolpita e segnata dal rossetto. Indossa un tailleur con gonna corta e attillata di un colore tra il grigio scuro e l’azzurro, ornato di profilature di colore dorato; sul sottogiacca nero a collo alto spicca una collanina d’oro con un ciondolo rotondo, a forma di timone. Niente orecchini. La gonna lascia scoperte le gambe lunghe e robuste, coperte da un paio di calze sullo stesso tono grigio-azzurro del tailleur, a rete lavorata con ampie decorazioni a motivo floreale.
Legge un libro in edizione economica, con la copertina tutta sui toni del giallo e dell’arancio, che riporta il titolo diviso in due nuvolette da fumetto: prima nuvoletta: “Perché mentiamo con gli occhi” seconda nuvoletta: “e ci vergogniamo con i piedi?”. Stringe nella destra una penna, e ogni tanto sottolinea o prende appunti, talvolta sul bordo, mettendo il libro di traverso e sfruttando tutta la lunghezza. A partire da Lastra a Signa fa una serie di sbadigli profondissimi. 

martedì 15 novembre 2011

CON LE DITA NEL NASO

Treno delle 7.16 per Firenze.
Ragazzo giovane, tra i 25 e i 30. Salito a Signa.
Capelli castano chiari, un bomber imbottito con il cappuccio, una sciarpa a quadri sui toni del grigio e dell’azzurro polveroso. Baffetti, barba volutamente malrasata.
Tira fuori dallo zaino un quadernone molto vissuto, con la copertina dai bordi un po’ arricciati e fogli che spuntano tra le pagine. Sembra stia ripassando una lezione. Poi rimette dentro il quadernone, trattiene solo un foglio piegato in due, è una fotocopia. Legge e alza lo sguardo, poi lo riabbassa, sembra ripetere tra sé e sé.
All’improvviso, quando il treno è ormai già ripartito da Firenze Rifredi e gli altri passeggeri si preparano alla discesa a Santa Maria Novella, fulmineamente rimette dentro lo zaino il foglio fotocopiato e tira fuori un libro, “Memorie di un cane giallo”, di O.Henry, in una edizione che non riesco a distinguere, forse Feltrinelli. Nei pochi minuti che mancano alla stazione di fine corsa si mette a leggere, e si infila più volte le dita nel naso.