lunedì 26 dicembre 2011

Scrivere è volare

Il 4 novembre presento il mio romanzo nell’ambito della XXI° edizione di “Leggere è volare - Festa del libro per ragazzi e giovani nelle terre di Siena”. La brochure del programma è davvero carina, l’immagine di copertina l’ha disegnata Milo Manara; vi si vede una bella e giovane ragazza che legge un libro (di Franz Kafka) e che grazie alla lettura si eleva al di sopra di una folla quasi indistinta. La presentazione, che si svolge a Siena, nella “Tendostruttura” dei Giardini La Lizza,  è curata da Domenico Bova, con cui mi sono sentita solo per telefono. Quando lo incontro di persona mi rendo conto che è giovane, poco più che un ragazzo. Mi ha detto che fa il giornalista; beato lui!


Iniziamo la nostra chiacchierata, Domenico è simpatico, ha un tono colloquiale che mi ispira. Mi propone una serie di spunti intelligenti, qualche apprezzamento che fa sempre piacere; mi dice che la mia scrittura è musicale.
Poi attacca un discorso che sembra un po’ complicato, parla di “modelli”, “scrittori di riferimento”, “ispirazioni.”. Aiuto! Adesso chissà cosa tira fuori…magari un autore che nemmeno conosco, o forse qualcuno che mi sta antipatico, un italiano che non mi piace,  un americano, magari, di cui non ho letto nulla…
E invece…
Magicamente, dopo il breve e misterioso preambolo, a cosa ha il coraggio di accostare, per tematica e forse anche per stile, il mio romanzo?
… per quanto possa sembrare incredibile… dalla bocca di Domenica Bova esce questo titolo:
L’isola di Arturo, di Elsa Morante!
Resto quasi senza fiato e dico che no, non ci avevo mai pensato, mentre scrivevo avevo sempre accuratamente evitato di riflettere su stili o di evocare modelli; come osare, poi, accostarsi ad Elsa Morante, una delle più grandi scrittrici italiane e una delle mie autrici preferite, se non la preferita in assoluto…
“La preferita in assoluto” … eppure, è vero, è proprio così! Ed è emozionante che una persona che non sa nulla di me e non mi conosce se non attraverso la lettura del mio romanzo abbia riscontrato nelle pagine che ho scritto una assonanza con questa scrittrice da me così amata, così unica…
Continuo dicendo che Elsa Morante è una delle scrittrici che ho letto con maggior piacere e passione. E ricordo, improvvisamente, come in un flash, che la storia narrata nel romanzo della Morante rammentato da Bova  parla di un rapporto genitore-figlio, proprio come succede nel mio La donna che morì bevendo caffè, solo che lì, nell’Isola di Arturo, la coppia analizzata è quella padre-figlio; e mi accorgo che è ancora una volta il rapporto genitore-figlio ad essere analizzato in un altro romanzo di Elsa Morante da me molto amato, Aracoeli, dove però la vicinanza alle tematiche de La donna che morì bevendo caffè è ancora più marcata, trattandosi stavolta del rapporto madre-figlio… ricostruito, oltretutto, quando la madre è già morta, proprio come nel mio libro…


Come ho fatto a non pensarci prima? Eppure questi due romanzi hanno costituito i capisaldi delle mie letture giovanili… ricordo ancora quella mattina del 1982, al liceo, quando il professore esordì dicendo: “Oggi esce il nuovo romanzo di Elsa Morante”…
E io, che alla tenera età di 9 anni ero stata folgorata da La storia, letta di nascosto dai miei genitori che me l’avevano proibita come libro non adatto alla mia età, mi precipitai a investire i soldi della mia paghetta settimanale  nell’acquisto di Aracoeli, letto in un soffio, con la voracità tipica dei quindici anni…
Sia nell’Isola che in Aracoeli i figli protagonisti del racconto sono impegnati in un processo di ri-costruzione della vera “identità” psicologica e morale del genitore, processo che li condurrà, inevitabilmente, anche ad una ri-definizione di se stessi.
Arturo, che è un ragazzino, effettua le sue scoperte in merito all’amata, idolatrata figura del padre  suo malgrado, senza muoversi dall’isola di Procida, limitandosi a reagire e interagire con gli avvenimenti che via via gli si concretizzano attorno; Manuel, protagonista di Aracoeli, già adulto, intraprende invece la sua ricerca in modo assolutamente volontario, con un viaggio nella regione natale della madre, in Spagna. (quell’Andalusia che evidentemente sulla Morante doveva esercitare un’ attrattiva singolare; ripenso al fascinoso titolo di una sua bella raccolta di racconti, Lo scialle andaluso)      
Alla fine dei due romanzi, né il padre di Arturo né la madre di Manuel ci appariranno così come ci erano stati presentati all’inizio della narrazione; e anche i due figli saranno inevitabilmente diversi, entrambi feriti e marchiati dalle scoperte fatte, costretti ad affrontare quel che li attende – la vita - con animo nuovo, più dubbioso, più tormentato, più dolente, ma anche più maturo.
E il mio Orso? Non succede, forse, lo stesso anche a lui?
Eh si, Domenico Bova ha proprio ragione…
E per un attimo me li immagino tutti e tre, Arturo, Manuel e Orso, riuniti in un virtuale salottino letterario, abituale ritrovo dei personaggi dei romanzi, tutti impegnati a chiacchierare, a bere caffè e a scambiarsi opinioni e battute sulle proprie storie, sui propri rispettivi genitori…
Che bello, scrivere. Scrivere è volare. 



martedì 13 dicembre 2011

Lettori in viaggio / 5

Giovedì 29 settembre 2011.

IL GIOVANE MANAGER
Treno Frecciarossa per Milano. Partenza da Firenze alle ore 9.00.
Di fronte a me, un giovane manager. Completo giacca e pantalone blu scuro, camicia a righine azzurre, cravatta sottile, blu. Scarpe legate, marrone scuro. Calvo, sopracciglie folte, accuratamente sbarbato, odoroso di dopobarba; bocca ben disegnata, volitiva. Dita senza anelli, mani piccole con peluria che dai polsi si allunga sul dorso. Parla continuamente al cellulare. Accento romanesco, ma controllato. Appuntamenti, percentuali, forniture, segretarie, I.V.A., fatture, spedizioni, merci, ufficio di collocamento, paesi esteri – Dakar, Ginevra, Shangai - nomi stranieri – Willy, Josè, Duke, Jennifer. Chiude una conversazione, digita un numero e ne inizia un’altra. Ininterrottamente.  Ogni tanto, parlando, consulta l’agenda, grande e sottile, con copertina di pelle nera lavorata. Prende qualche appunto. Dopo circa mezz’ora ininterrotta di telefonate, e siamo già quasi a Bologna, con mossa fulminea estrae un libro dalla borsa nera appoggiata a terra e si mette a leggere. “Per sempre” di Edoardo Nesi. Legge muovendo piano la bocca, sillabando a bassissima voce, impercettibilmente, le parole. Dopo pochi minuti, afferra il cellulare e digita un messaggio. Si rimette a leggere. Va avanti forse una pagina, quindi armeggia di nuovo con il cellulare e spedisce un altro messaggio. Siamo ripartiti da pochi secondi da Bologna, riprende il cellulare e fa una telefonata. E’ arrabbiato, è successo qualcosa che lo irrita; appoggia il libro sul tavolinetto e si lancia in una lunghissima conversazione che dura più di mezz’ora. Riprende il libro, legge forse mezza pagina, nuova telefonata. Prosegue così per tutto il viaggio: breve lettura a voce bassissima, messaggi, telefonate. Fino a Milano, dove arriviamo alle 10.45.

Martedì 4 ottobre 2011

LA TAMPONATA
Treno delle 7.23 per Firenze. Accanto a me una donna sui cinquanta. Ne sbircio il profilo. Capelli lisci sulle spalle, occhiali rettangolari dalla montatura sottile e blu, mento piccolo e sfuggente. Soprabito leggero  di un bel marrone/ruggine, jeans, ai piedi ballerine nere. All’anulare della destra, un anello caratterizzato da una grossa pietra scura. Appoggiata sulle ginocchia una grande borsa marrone, con una sciarpetta color crema legata al manico. Sopra alla borsa ha appoggiato un libro aperto, di cui non vedo né copertina, né titolo. Stringe in mano un lapis, mi accorgo che lo ha utilizzato per sottolineare il testo e per prendere appunti ai margini delle pagine. E’ distratta, guarda fuori. Distinguo i titoli dei capitoli sulle pagine del libro aperto: “La parola giusta”, e poi: “Parti col piede giusto”. Un libro sulle tecniche di comunicazione, forse, sull’empowerment personale. Ma la lettrice pare aver voglia di riflettere, più che di leggere. Guarda fuori dal finestrino e pensa. Verso Montelupo gira pigramente pagina. Compare in neretto un capitolo intitolato: “Parole d’oro, parole di piombo.” La lettura non va avanti. A Rifredi, mentre il treno è fermo per la discesa e la salita dei passeggeri, le suona il cellulare. Velocissima, chiude il libro e risponde. Voce corposa, bassa, ma un po’ arrochita; accento dell’Italia del nord. Un secondo per i saluti e poi, subito:
“Ma sai cosa mi è successo a Milano. Ero in macchina nel parcheggio del supermercato, stavo uscendo, una ha fatto retromarcia e mi ha colpito in pieno. Sono scesa, e quella è scappata. Eh ma le ho preso la targa, so già chi è e dove abita. E’ che con questa crisi la gente non paga più le assicurazioni. Per questo quella è scappata. L’ho raccontato a Fabrizio e ci siamo ricordati di quando fu tamponato lui. Rammenti anche tu? Era la figlia dei proprietari della fabbrica di fiammiferi *****. Poverina, si scusò tantissimo, era molto spaventata. Sistemammo tutto. Eh ma adesso il mondo è cambiato.”