venerdì 30 settembre 2011

Un caffè con Martin Eden

Il primo luglio 2011 c’è stata la prima presentazione del mio romanzo, alla libreria Martin Eden, a Fucecchio, dopo cena, nell’ambito delle iniziative estive con l’apertura serale dei negozi. Un’atmosfera da festa di paese, a un certo punto si è sentita anche la banda che suonava in piazza; noi seduti a un tavolino davanti alla libreria, per strada, clima tranquillo. Mi presenta Riccardo Cardellicchio, un nome  storico del giornalismo della nostra zona, un tipo decisamente toscano. Quanti anni ha Cardellicchio? Più o meno quelli che avrebbe il mio babbo, una settantina. Mi fa domande intelligenti, si sente che il libro lo ha letto tutto e davvero, e chissà, magari gli è anche piaciuto. Ma questo non lo dice. Vecchia volpe.


Pochi giorni dopo parto per il mare. Una sera, girando tra le bancarelle dell’immancabile mercatino, tra i libri usati scorgo il “Martin Eden” di Jack London. 1 euro. Però! Affare fatto. Per leggerlo mi ci vuole un po’ di tempo, è un volume non breve, richiede attenzione e sotto l’ombrellone non è che ci si possa concentrare più di tanto. Ma non mollo, e Martin Eden mi conquista.
Jack London lo scrisse quando aveva trentatrè anni, nel 1909, e vi narrò la sua propria storia, celandosi dietro il personaggio dell’aitante giovane marinaio californiano che decide di diventare scrittore e si sottopone ad ogni tipo di sacrificio e privazione pur di raggiungere il suo scopo. Le pagine in cui viene descritta la vita grama dell’aspirante scrittore sono terribili; le ore passate a leggere, studiare e scrivere, i digiuni per la mancanza di soldi, le veglie, le inutili spedizioni di manoscritti a riviste e case editrici, i pochi beni al monte dei pegni, la difficoltà di portare avanti le relazioni sociali e soprattutto la sua storia d’amore con la borghese Ruth; dalla quale, talvolta, non può nemmeno recarsi in visita, avendo dovuto impegnare il solo abito scuro in suo possesso, già un po’ liso e consunto, ma comunque unico suo capo d’abbigliamento “presentabile”.  E, a fronte di tutto questo, la volontà incrollabile di “farcela”. E quando tutto sembra davvero essere perduto, quando la fame sta per avere il sopravvento sul fisico ormai indebolito di Martin, quando anche Ruth lo ha lasciato, ecco che, improvvisamente, il destino prende a girare in senso inverso, le cose ingranano, e in breve tempo il miracolo si compie; e Martin Eden diventa uno scrittore famoso, riconosciuto, pagato e strapagato. Tutti, adesso, lo cercano, lo vogliono, sono disposti a lodarlo. Persino Ruth torna da lui, per proporgli di ricominciare.  Martin, però, non è sereno. Ricco e famoso, si aggira in quel suo nuovo mondo spaesato e insicuro, chiedendosi continuamente: “Ma perché adesso tutti si comportano così diversamente rispetto a prima? Io non sono cambiato! Sono la stessa persona!”
Si sente amato e ricercato non per quello che è – dato che è esattamente lo stesso di quando tutti lo rifiutavano – ma per quello che è diventato. E questa amara consapevolezza  non gli dà tregua, lo soffoca.
E così, decide di mettersi in mare e partire, per un viaggio da cui – forse – non farà mai più ritorno...
Bello questo romanzo, bello Martin Eden. Sono contenta che “La donna che morì bevendo caffè” sia stato presentato per la prima volta in una libreria che porta il suo nome. Se i due si fossero conosciuti – Martin e La donna, intendo – probabilmente sarebbero diventati amici…


lunedì 26 settembre 2011

Le interviste impossibili/ Alessandro Manzoni

Cristina Preti: Buon giorno, Maestro. Posso chiamarla così?
Alessandro Manzoni: Faccia pure. Sa un po’ di direttore di coro, o di banda, ma può andare.
C. P: E’ che non so come ci si debba rivolgere a lei. Professore? Dottore?
A.M: Lasci perdere, è meglio. Vada per Maestro e chiudiamola qui.
C. P.: Bene, Maestro. Immagino che lei non ne possa più di interviste.
A.M.: Guardi, ne ho rilasciate talmente tante che ormai non ci faccio più nemmeno caso. Speravo che dopo la mia dipartita dal mondo terreno la gente si placasse, e invece niente. Mi tormentano anche qui, vengono a intervistarmi dal passato e dal presente. Anche dal passato remoto, intendo; l’altro giorno si è presentato Platone, voleva parlare con me dell’amore platonico.
C.P.: E lei cosa gli ha risposto?
A.M.: L’ho cacciato, ero di malumore. E lei, invece, di cosa vorrebbe parlarmi?
C.P.: Io veramente vorrei parlarle di qualcosa di molto terreno, nulla a che vedere con l’amore platonico o simili. Volevo parlare con lei dei suoi venticinque lettori.
A.M.: Cosa? Scusi, ma a me, l’autore dei Promessi Sposi, il romanzo italiano per eccellenza, dell’Adelchi, della lirica che inizia con quell’incipit memorabile,  “Ei fu…”  e che contiene il celeberrimo verso “Ai posteri l’ardua sentenza”, a me, dico, vuol chiedere questa sciocchezza… cos’è che ha detto? I venticinque lettori!
C.P. : Sarà anche una sciocchezza, esimio Maestro, ma l’ha scritta lei… le cito testualmente: dai Promessi Sposi, capitolo 1. “Pensino ora i miei venticinque lettori che impressione dovesse fare sull’animo del poveretto quello che s’è raccontato.”
A.M. Ah, ma vabbè, era una forma retorica, una espressione di modestia…
C.P. Ah sì? Ma io pensavo che questa storia dei venticinque lettori fosse vera.
A.M. Non nego che, all’inizio, avevo una gran paura di non vendere il mio romanzo e temevo di poter contare al massimo su una ventina di lettori. Subito dopo la pubblicazione tempestavo l’editore di chiamate per sapere come andavano le vendite. Ma le risposte dell’editore, ecco, come dire? Mi rassicurarono subito. “I promessi sposi” diventò immediatamente un best-seller. Ma… di grazia, perché le interessa questo particolare?
C.P. Maestro, anche io ho scritto un libro.
A.M. Ah si? E di cosa tratta?
C.P. Si intitola “La donna che morì bevendo caffè”. La storia del rapporto tra una madre e un figlio, ricostruita da quest’ultimo dopo la morte della madre.
A.M. Tutto qui? Non ci sono altri intrecci?
C.P. Bè è un tema vasto, le assicuro…
A.M. Eh, ma benedetta ragazza, avrebbe dovuto ampliarlo un po’… ci sono intrighi?
C.P. Forse… qualcosa…
A.M. Com’è morta questa signora? L’hanno uccisa?
C.P. Dovrebbe leggerlo per scoprirlo…
A.M. Ci sono potenti che tramano alle spalle dei protagonisti?
C.P. Potenti? Ma no, è una storia di ambiente borghese…
A.M. C’è un bel quadro storico di riferimento?
C.P. E’ ambientata al giorno d’oggi…
A.M. E qualche prete, c’è? Una monaca? Qualche alto prelato, magari corrotto…
C.P. In verità no… però io mi chiamo Preti… forse può essere sufficiente…
A.M. Suvvia, non faccia la burlona. Mi sembra di capire che sia una storia un po’ esile. E perché voleva sapere dei miei venticinque lettori?
C.P. Così… per un confronto. E’ che ho l’impressione di conoscere uno per uno chi ha comprato il mio libro… sa, abito in una cittadina piccola, di provincia… in libreria mi conoscono. Quando mi vedono le commesse mi aggiornano subito… ne abbiamo vendute due copie… una alla moglie del commercialista Tale, una alla moglie dell’ avvocato Talaltro…
A.M. Comunque un pubblico qualificato, sento… liberi professionisti…
C.P: L’altro giorno, ero sul treno, ho ricevuto un sms da una mia cara amica. Diceva: “Sono in libreria e assisto in diretta all’acquisto del tuo libro!” Subito le ho risposto chiedendole: “E chi lo sta comprando?” E lei: “Mezz’età, alto, un po’ freak, capelli grigi ricciuti”. Guardi, Maestro, non ci dormo la notte su questa descrizione, non riesco a capire chi possa essere. Un po’ freak! Mai frequentati fricchettoni in vita mia. Mi sento quasi offesa.
A.M: Un consiglio: se vuole vendere, non si offenda di nulla. Guardi me; gli studenti  italiani mi odiano perché il mio romanzo viene fatto leggere a scuola e per il semplice fatto che si tratta di una lettura imposta dai programmi ministeriali se potessero mi darebbero fuoco. Ma io non mi offendo delle loro imprecazioni e dei loro accidenti, che pure mi raggiungono tutti. Non mi offendo affatto  perché intanto sono state acquistate migliaia e migliaia di copie del mio romanzo. Anche da quassù percepisco i diritti d’autore sa? Avevo firmato un contratto molto, molto lungimirante.
C.P. Insomma, cosa devo fare?
A.M. Ma secondo i suoi calcoli, a quanti lettori siamo col suo romanzo… Il caffè della donna che morì bevendo…
C.P. No, Maestro, “La donna che morì bevendo caffè.” Guardi, secondo i miei calcoli dovremmo essere a ventidue.
A.M. Compreso il tipo freak.
C.P. Si, compreso il fricchettone.
A.M. Non saprei cosa dirle. Come sa, funziona il passa-parola… uno lo legge, lo dice ad un altro… certo che il tema dovrebbe essere un po’ più interessante… benedetta ragazza! Se almeno lo avesse ambientato ai tempi della prima o della seconda guerra mondiale, avrebbe potuto farlo adottare come libro di testo nelle scuole medie…
C.P. Niente da fare, c’è pure una scena di sesso; non mi pare il caso di proporlo agli studenti.
A.M. Guardi, non so che dirle. Intanto me ne porti una copia, vedrò cosa posso fare. Ehm… quanto ai  suoi ventidue lettori… ecco… le do dei buoni sconto del 20% per l’acquisto dei Promessi Sposi, l’ultima edizione con i commenti critici più aggiornati… se vuole distribuirli a questi suoi 22 amici… non si sa mai… gli italiani dovrebbero tutti possedere almeno una copia del mio romanzo, ma può accadere che…
C.P. Va bene Maestro, distribuirò ai miei 22 lettori i suoi buoni… e per quanto riguarda il mio libro?
A.M. Le farò sapere… le farò sapere…

sabato 24 settembre 2011

Lettori in viaggio / 1

IL GIGANTE BUONO
Mattina presto. Sul treno per Firenze. A Montelupo sale un ragazzo che si siede davanti a me e subito si mette a leggere. E’ un tipo corpulento, davvero grosso, con la fronte ampia, una gran massa di capelli biondi ricciuti e lunghi, legati a coda di cavallo. Ha gli occhi chiari, baffi e barba alla Cavour, una faccia liscia, rosa, giovane, occhialini dalla montatura piccola e dorata, che però per leggere si è tolto. Ha le mani paffute; sembrano mani di bambino, solo un po’ più grandi.  Indossa un ingombrante cappotto di pelle nera. Legge un libro in edizione economica, ne sbircio il titolo: Mario Rigoni Stern, “Il sergente nella neve” e “Ritorno sul Don”, riuniti in un unico volume. E’ molto concentrato nella lettura. Lo immagino buono, politicamente impegnato e di sinistra, colto, curioso. Non stacca gli occhi dal libro per tutto il viaggio; soltanto pochi secondi prima che il treno si fermi a Santa Maria Novella chiude il volume, si alza, lo infila in una tasca del cappotto e si prepara a scendere.
(Venerdì 10 dicembre 2010.)

LA FIDANZATINA
Ragazzina salita a Signa. Ha uno zaino leggero, è sola. Probabilmente va a scuola, deve essere al primo anno delle superiori. Indossa un cappottino di panno blu scuro e dal collo e dalle maniche spunta un maglione sempre blu a lana grossa. Ha i capelli lunghi, di un bel castano, mossi, con le punte a boccoli. Le guance rotonde da bambina, labbra tumide, pelle dalla grana biscottata, senza un filo di trucco. Estrae dallo zainetto un libro dalla copertina azzurra e si mette a leggerlo. “La ragazza di Berlino”, di Anne Wiazemsky. Le suona il cellulare. Risponde con una voce squillante, anche se il modo di parlare è pacato, tranquillo. Forse un fidanzatino; lei chiede subito: ”Sei davanti alla scuola?” e aggiunge “Ti sei fatto i capelli lisci stamani?” Poi risponde alle domande dell’altro. “Non avevo voglia di ripassare la lezione. Sto leggendo.” E poi ancora “Come, cosa leggo? Leggo il libro. Il libro mio.” Quando spenge il cellulare resta per un po’ con lo sguardo perso al di là del finestrino, il libro chiuso in grembo. Poi riprende a leggere.
(Mercoledì 12 gennaio 2011)

LA DONNA PRATICA
Sul treno delle 17.38 che mi riporta a casa.
Siede davanti a me una donna non giovanissima ma neanche vecchia, sui quarantacinque. Tipo sportivo, non molto curato; felpa blu piuttosto vissuta, jeans, scarpe tipo sneakers color marrone, giubbotto nero imbottito con pelliccetta al collo. Capelli rossicci, lisci, fini, a caschetto, con ricrescita bianca abbastanza evidente, occhiali dalla montatura rettangolare. Viso struccato, naso un po’ arrossato in punta. Per un po’ sonnecchia, si guarda intorno. Poi estrae un libro, la copertina sul davanti è blu, dietro gialla. “La civiltà villanoviana.” Inizia a leggere. Le squilla il cellulare. Comunica che siamo all’altezza di Montelupo, dà direttive per la spesa; non nomina nessun prodotto, si limita ad approvare la lista proposta dall’altra parte, dicendo a un certo punto: “Basta così, sennò poi avanza e ci tocca buttar via la roba.” E ancora: “Se vuoi comprarlo fallo pure, ma solo per te, costa un’esagerazione e io non ci trovo nulla di speciale.”
(Venerdì 14 gennaio 2011)

giovedì 22 settembre 2011

Perché proprio il caffè

Perché proprio il caffè nel titolo del mio romanzo?
Intanto, è ovvio, perché c’entra con la storia. Non posso scendere nei particolari per non rovinare la sorpresa ai milioni e milioni di lettori che ancora non hanno letto il mio libro – ma che lo faranno presto. Non voglio che mi pesi sulla coscienza la delusione che proverebbero nel sapere in anticipo come, perché e quando compare nel romanzo il famigerato caffè… 
E poi perché è una bevanda che mi accompagna da una vita.
Evoca ricordi di cucine; quella della mia casa di ragazza quando bevevo il caffè con mia madre nella quiete del dopopranzo, oppure a metà pomeriggio, tra un capitolo e un altro degli interminabili volumi che studiavo per l’università; la cucina della casa di mia zia, in campagna, che si apre su una terrazza con una spettacolare vista sui campi e gli oliveti del Montalbano; quella della mia attuale casa, in cui bevo il caffè sfogliando il giornale, nella luce silenziosa del primo pomeriggio, quando tutti si riposano, anche il porcellino d’india che dorme accoccolato nella sua gabbietta.
Evoca ricordi di bar; quello interno al palazzo comunale del mio primo impiego, con le colleghe a chiacchierare di libri, di vestiti e di film; il bar del centro rinomato per i bomboloni alla crema in cui portavo a far merenda Raffaele quando era piccolo; i bar vicini al mio ufficio, a Firenze, tutti marmo color miele ambrato decorato con fregi dorati, pieni di turisti, di impiegati in giacca e cravatta, di commercianti, di gente a zonzo non si sa perché.
Evoca le macchinette distributrici di caffè; sì, a me piace anche quello delle macchinette.  
Evoca relazioni, chiacchiere, confidenze, piccoli intrighi, aggiornamenti, sfoghi, amicizie; e momenti di pausa trascorsi in breve solitudine, rubati al caos delle giornate, all’incalzare delle voci, allo squillare dei telefoni, ai richiami del mondo.
Anche una delle opere letterarie più belle che io abbia mai letto, la Trilogia del Cairo di Naguib Mahfuz,  è potentemente legata al ricordo del caffè. La trilogia - composta dai volumi “Tra i due palazzi”, “Il palazzo del desiderio” e “La via dello zucchero” – narra le vicende di una famiglia cairota dagli inizi del novecento fino all’avvento di Nasser, nei primi anni cinquanta.
Romanzi dalle atmosfere struggenti, in cui i vicoli del Cairo trionfano con la loro umanità variegata e fantasiosa, i loro colori impolverati dal caldo, le botteghe in penombra, gli aromi acuti di spezie e di essenze. I componenti della famiglia protagonista  della Trilogia hanno l’abitudine di riunirsi ogni giorno per prendere, tutti insieme,  il caffè: passano gli anni, gli amori, le amicizie e le inimicizie, le tristezze, le gioie, le preoccupazioni, i personaggi crescono, maturano, invecchiano e muoiono, ma resta, al centro di tutto questo intreccio di vicende, la quotidiana “riunione al caffè”. E intorno a quel caffè si celebra l’umano trascorrere della Vita, l’ineluttabilità della Storia, lo svolgersi inarrestabile del Tempo.