sabato 14 dicembre 2013

Le donne non la danno



Mario Spinella
Le donne non la danno

Ma come si fa a intitolare così un libro? C’è da vergognarsi  a portarlo in giro. E infatti, leggendo io prevalentemente sul treno, e non reggendo l’imbarazzo di esibire in pubblico un libro così bizzarramente intitolato, ne ho nascosto la copertina con una delle mie solite sovraccoperte fatte con una pagina di
giornale, che applico ai libri che mi porto in spiaggia per proteggerli dalla sabbia.  Mi sono accorta, una volta terminata la lettura e rimesso il libro sullo scaffale, che la pagina di giornale che avevo utilizzato per la sovraccoperta era evidentemente uno speciale dedicato alla salute e l’articolo che finiva per spiccare sulla copertina del mio libro, scritto tra l’altro a grandi caratteri in grassetto, era dedicato all’incontinenza maschile… “L’incontinenza da urgenza.  Nota anche come vescica iperattiva, è il tipo d’incontinenza più diffuso tra gli uomini…” Cioè, era meglio se i miei compagni di viaggio sul treno avessero letto il vero titolo del libro… chissà che risate si sono fatti, mentre io, concentratissima sulla lettura, macinavo pagina dopo pagina. Ho pensato però che forse questa curiosa circostanza non avrebbe irritato l’autore Spinella, che, a giudicare da questo romanzo, doveva avere un debole per il grottesco…
Il personaggio che funge da voce narrante della storia è un tapiro ospite dello zoo di Milano. Un tapiro marxista, per la precisione. Gli animali, in questo stravagante libro, formano una sorta di società segreta che osserva gli umani, ne registra comportamenti, pensieri e vicende varie. E il nostro tapiro segue da vicino quel che avviene al signor Mario Spinella, detto Signor Spinella o, per brevità, dalle iniziali di quest’ultima denominazione, SS. Questa è soltanto una delle numerose bizzarrie nomenclatorie del romanzo, che accanto al Tapiro  -  di nome Rikki - e a SS ci presenta la signorina Alatiel Bescapè detta Lalieta nonché Lalli, un pretore che si chiama Vincenzo De Pretore, la gallerista vedova Gliozzi… e poi gatti, farfalle e insetti che spiano gli umani, il tutto in un profluvio inarrestabile di citazioni, divagazioni, divertissement, incisi, condotti da una narrazione a tratti didascalica, a tratti saccente, un po' compiaciuta, talvolta delirante. L’esilissima trama che a fatica si fa strada tra pagine e pagine di ragionamenti più o meno pretestuosi e paradossali prevede che la graziosa signorina Lalli Bescapè, sonnambula e impiegata in una azienda che produce computer, si trovi a fungere da anello di congiunzione tra la dimensione ultraterrena da lei abitata quando è in trance e le misteriose e inquietanti potenzialità dei calcolatori elettronici. Il tutto per arrivare a sancire una connessione tra donne e computer e a delineare in chiusura di racconto un mondo pacificato in cui le donne comandano e dove vi è cibo, pace e pane per tutti.
Ma cosa c’entra lo strano titolo con tutto ciò? C’entra, o meglio c’entra con quello che le donne, appunto, non danno, che, al di là dell’ammiccamento malizioso, è in realtà tutt’altra cosa rispetto a quella cui l’allusione potrebbe far pensare. E che viene rivelata soltanto nell’ultimissima pagina del romanzo, lasciando il lettore, a dire il vero, a bocca aperta, e facendo venire la voglia di rileggere tutto da capo, alla luce dell’ultima rivelazione.
Leggo che Mario Spinella, scomparso nel 1994, ha avuto una vita davvero  densa. Poco dopo la laurea (in lettere, alla Normale di Pisa) è stato lettore di italiano all’Università di Heidelberg, quindi soldato in Russia con l’ARMIR, poi partigiano in Toscana, poi giornalista per “Vie nuove”, “Società”, “Rinascita”; fu chiamato dai Padri Gesuiti a tenere corsi sul marxismo all’Aloisianum. Infaticabile promotore culturale, fu direttore responsabile della rivista “Utopia”, quindi redattore per “Il piccolo Hans” e “Alfabeta”, curatore e traduttore di testi letterari e scientifici, nonché narratore e romanziere. Un particolare che mi è rimasto molto impresso delle note biografiche che ho letto è che aveva una passione per l’Orlando Furioso di Ariosto, al punto da essersi in pratica innamorato del personaggio di Bradamante; e il predominio di quest’ultima nel cuore di Spinella era insidiato soltanto dalla Gilberte di Proust. Un intellettuale talmente ispirato da innamorarsi di personaggi letterari… non credo ne esistano ancora. Mi sarebbe piaciuto conoscerlo!   

PRIMA FRASE
Il fatto, indubitabile, che io sia un tapiro non toglie credibilità alle osservazioni e deduzioni che, nel corso di una pluriennale esistenza, mi è stato dato di compiere a proposito delle donne.
        

lunedì 25 novembre 2013

La nota segreta di Marta Morazzoni



La nota segreta
Marta Morazzoni

Ho avuto l’impressione che questo libro mi aspettasse, aspettasse proprio me.
“La nota segreta” è la storia di un amore assolutamente  - apparentemente - impossibile tra una suora e un diplomatico inglese. Tra l’altro, storia realmente accaduta, nel 1736, a Milano, dove avviene l’incontro fatale, nella chiesa del monastero di Santa Radegonda. Il particolare che mi ha reso cara questa storia, e che ne è, poi, il tratto distintivo, è che, date le circostanze, l’incontro non avviene tra i due protagonisti, ma tra il protagonista maschile e la voce della protagonista femminile. Infatti il diplomatico inglese John Breval si innamora della voce della giovanissima Suor Paola ancor prima che di lei, udendola dalla chiesa mentre dietro la grata che separa le monache dal mondo intona, assieme a un’altra suora più anziana, anch’essa cantante e dotata di un raro talento musicale, lo Stabat mater di Pergolesi. Pergolesi morì proprio nel 1736, a Pozzuoli, appena ventiseienne, e lo Stabat mater è la sua ultima  - sublime – composizione. Suor Paola e la suora più anziana, Suor Rosalba, ne sarebbero state, quindi, tra le primissime interpreti.
Suor Paola ha voce di contralto, e a questa voce lo Stabat mater pergolesiano affida pagine di commovente bellezza, con una linea di canto che sovente si colloca nelle zone basse della tessitura e che valorizza i toni cupi e brumosi del registro grave della voce femminile. John Breval, tipico gentiluomo inglese, diplomatico per di più, elegante e compito, frequentatore di salotti e fine conversatore, viene attratto, fino ad innamorarsene, non dalla voce cristallina e svettante del soprano, ma dall’altra, quella che sonda gli abissi del dolore e della desolazione.  Egli sente che quella voce – e soltanto quella – risuona nelle parti più recondite e forse insoddisfatte del proprio animo; e di quella si innamora, tanto da trovare il coraggio di concepire un ardito piano di fuga per strappare l’amata voce al convento e portarla via con sé, e disegnare così un nuovo futuro per entrambi – lui, che in Inghilterra ha moglie e figli, dovrà rinunciare alla sicurezza della famiglia e del suo prestigioso lavoro.
Ma non tutto va come dovrebbe andare, e i due innamorati affrontano varie traversie; anche se poi, come nelle più romantiche delle storie, il quadro si ricompone, e alla fine Paola ottiene persino lo scioglimento dai voti dalla sacra penitenzieria di Roma.  
E’ un romanzo fatto di silenzi, dato il carattere assai riservato dei due
protagonisti; silenzi che restano predominanti e che nemmeno il canto delle monache riesce a scalfire. In tali silenzi si inserisce spesso la voce della scrittrice, che non esita a intervenire in prima persona nella narrazione con commenti e osservazioni  che spesso servono anche a risolvere snodi narrativi complicati. A dire il vero, il finale del romanzo è un po’ in tono minore; gli eventi iniziano a rarefarsi ancor prima di giungere alla conclusione, che è tracciata quasi per accenni. Insomma, come succede spesso nei romanzi d’amore, il narratore accompagna i due protagonisti fino all’altare; quel che succede dopo non lo sappiamo… Ma non per questo il romanzo non mi è piaciuto, anzi. La storia è troppo suggestiva per non affascinarmi e i due protagonisti sono troppo innamorati a dispetto di tutto e di tutti per non guadagnarsi le simpatie dei lettori, me compresa ovviamente.   

Mi dicono che il Monastero di Santa Radegonda non esiste più, anche se è rimasta in piedi la Chiesa. Non escludo di recarmi in visita a tale chiesa, prima o poi, per omaggiare la memoria di due persone che per amore seppero rompere i sigilli delle rispettive clausure, reali o metaforiche che fossero.

PRIMA FRASE
Nel monastero di Santa Radegonda in Milano visse e operò, all’incirca dalla prima metà del 1700, tale Rosalba Guenzani, monaca benedettina. Suor Rosalba fu per un certo tempo il vanto del monastero, nota in tutta Milano e forse anche fuori dal confine della città e dello stato che era già nelle mani degli Asburgo. Era nota, la monaca, per avere una dote, la voce, e un talento musicale raro.

ULTIMA FRASE
“E’ vero, eminenza. Oggi abbiamo avuto, a portata delle nosre orecchie, le due più belle voci che si conoscano in Italia e non solo, e non ne abbiamo goduto che per cenni di parole. Che spreco! Anche per loro. Non canteranno mai più insieme. E forse non canteranno più, né a maggior gloria di Dio né per il bene degli uomini”, e il cardinal Petra scosse la testa. Era sinceramente dispiaciuto.

domenica 3 novembre 2013

N. di Ernesto Ferrero



Ernesto Ferrero
N.

Ho sempre amato Napoleone, di quell’amore che si concepisce sui banchi di scuola quando ci si imbatte in queste personalità storiche eccezionali. Perché? Non so. Sicuramente personaggi come lui destano ammirazione per le capacità strategiche, intellettuali e politiche dimostrate sul palcoscenico della storia, soprattutto a distanza di secoli, quando certi particolari, per esempio il numero esorbitante dei morti delle loro molte battaglie, tendono a passare in secondo piano rispetto ai loro disegni, ai loro progetti, e alle loro realizzazioni. Sicuramente ho amato la sua volontà di pensare in grande, di confrontarsi con la Storia, di agire al di là del giudizio sul proprio operato. Sospetto anche che alla base della mia predilezione per il Corso abbia avuto un certo ruolo la visione, da ragazzina, del film “Désirée”, in cui Napoleone è interpretato da Marlon Brando, attore che adoro da sempre. Infatti se mi devo raffigurare l’immagine di Bonaparte non è tanto ai quadri di David che penso, ma alle inquadrature del bel Marlon con virgolina di capelli sulla fronte e cosce strette in attillati pantaloni bianchi. Il film è del 1954 e a quell’epoca Brando aveva trent’anni, era al culmine della fama – dopo “Il selvaggio” e “Fronte del porto” - e della bellezza…  
Ma non divaghiamo. Lasciamo l’attore e torniamo al personaggio storico, e più
precisamente al romanzo N., scritto da Ernesto Ferrero e dedicato, appunto, a Napoleone. Il romanzo narra dei dieci mesi (maggio 1814 – febbraio 1815) che Napoleone trascorse all’Isola d’Elba, dopo che, sconfitto, ebbe abdicato a favore del figlio. Il trattato di Fontainebleau gli garantiva la sovranità sull’isola, e così poteva continuare a fregiarsi del titolo di Imperatore, anche se di un piccolo paese, con tanti abitanti quanti furono i morti in una soltanto delle sue battaglie (12.000, i francesi caduti a Essling del 1809), lui che aveva regnato su un territorio che si estendeva da Cadice a Mosca.
Nel romanzo si immagina che un notabile erudito dell’isola, Martino Acquabona, sia assunto come bibliotecario dall’Imperatore. Da mite umanista inorridito dagli orrori della guerra, Acquabona considera Bonaparte un mostro sanguinario, e ha concepito nei suoi confronti un odio profondissimo e viscerale. Odio che lo ha portato, nei quindici anni antecedenti l’arrivo di N. sull’isola, a collezionare ossessivamente tutto il collezionabile sull’eccezionale personaggio; volumi, stampe, oggetti recanti il suo ritratto, proclami, memoriali, libelli pro e contro, racconti e pettegolezzi di viaggiatori di passaggio.
Ma adesso che l’Orco – così chiamato dai suoi detrattori per via dell'enorme numero di “enfants” francesi che si era “divorato” nelle sue guerre - è sbarcato sull’isola e ha chiamato Acquabona accanto a sé, quella che era soltanto una figura odiata da lontano diventa protagonista della vita  quotidiana del bonario, ancorché tormentato, bibliotecario, un uomo da osservare da vicino e con cui confrontarsi continuamente. 
Napoleone ha sempre vissuto all’insegna della forza e del potere, mentre per il nostro bibliotecario, al contrario, uomo di lettere dedito allo studio speculativo, la vita è sempre trascorsa placidamente, come occasione di introspezione e meditazione, assolutamente scevra da eccessivi volontarismi. Non si potrebbero insomma immaginare due caratteri, due uomini e due destini più diversi e opposti; l’uomo pacato e quello aggressivo, il debole di fronte al forte, l’uomo di lettere e l’uomo d’azione, l’intelligenza e la sensibilità introversa dell’intelletto contrapposta all’intelligenza e alla perspicacia esuberante dello stratega.  
I due sono attratti l’uno dall’altro, anche se ciascuno a suo modo; Napoleone è soltanto incuriosito da questa figura di erudito taciturno, Acquabona viene lentamente, e suo malgrado, conquistato dall’Imperatore, forse per gli stessi motivi per cui ne sono rimasta conquistata io.  In particolare, sembra colpito dalla “normalità” che risiede nella “eccezionalità”; Napoleone è per molti aspetti un uomo come tutti gli altri, e in fondo è proprio questo che in genere conquista nei personaggi eccellenti, la scoperta del loro essere praticamente come noi; con la conseguenza che anche noi, quindi, potremmo aspirare ad essere eccezionali come loro. E questo ci piace, perché appaga il nostro amor proprio.
A un certo punto, però, la nascente simpatia del bibliotecario nei confronti dell’Imperatore subisce un duro colpo e Martino Acquabona, tornato al suo precedente sentimento di odio, ancor più esacerbato dalle circostanze,  giunge a progettare di ucciderlo. L’elemento attorno al quale ruota tutta la vicenda del rianimarsi del contrasto e della meditata vendetta di Acquabona è l’unico particolare che di questo romanzo mi è piaciuto poco, perché  si tratta di una donna – con cui il bibliotecario ha una sofferta relazione e che l’Imperatore, che presumibilmente non ne sa nulla, si porta a letto senza alcuna difficoltà. In un romanzo così bello e colto,  così stimolante da un punto di vista intellettuale, che ti fa venire voglia di riprendere i libri e di rimetterti a studiare, che ti fa meditare sui destini degli uomini e sul loro incrociarsi con i piani della Storia, avrei preferito che il contrasto tra i due protagonisti si mantenesse esclusivamente sul piano politico e cerebrale, senza che si andassero a scomodare sfere intime come quelle dei rapporti amorosi.
Non vorrei con questo sembrare troppo severa; il romanzo è davvero notevole. Martino non riuscirà ad attuare il suo proposito, e Napoleone scapperà dall’Isola dell’ Elba per andare incontro alla definitiva sconfitta di Waterloo. Resta da chiedersi se per Bonaparte non sarebbe stato meglio, e in certo senso più nobile, morire per mano di un bibliotecario geloso, piuttosto che consumarsi nell’esilio di Sant’Elena… ma dato che il personaggio di Martino Acquabona è di fantasia, l’interrogativo non si pone, e non ci resta che pensare che Napoleone è andato incontro all’unico destino per lui possibile.  

PRIMA FRASE:
Stava seduto al tavolo dello studiolo, di traverso. Sprimacciava con irritazione le carte che il generale Drouot gli aveva passato, il budget del 1815, come se tra quelle si fosse nascosto uno scarabeo o un cerambice, entrato per caso dalla finestra in cerca di tepore.

ULTIMA FRASE:
Mentre nuotavo felice con la mia preda mi è venuta in mente una frase dello zio: “Penso con sgomento che le isole non hanno altro domani che la partenza.”

domenica 20 ottobre 2013

Lettori in viaggio / 11



Martedì 7 febbraio 2012

LA BIMBA

Treno delle 7.04 per Firenze
Sale con me e mi si siede davanti una ragazzina, minuta, con un pesante cappotto e una serie di sciarpe a difendersi dal freddo inaudito di questi giorni. Ha sulla testa un pesante berretto di lana nera, dal quale spunta una folta capigliatura liscia e lunga, tinta di un artificiale rosso acceso. Ha il volto levigato delle ventenni, una bella bocca rosa, un velo di ombretto grigio scuro sulle palpebre, le mani leggermente paffute che ancora non hanno perso il candore e la morbidezza rosata delle mani dei bimbi.
Prende un libro dal suo grande zaino blu: “Se questo è un uomo”, di Primo Levi, nell’edizione Einaudi abbinata a “La tregua”. E’ un volume piuttosto vissuto, ha il segnalibro di una biblioteca con lo stemma del Comune in cima e la data della restituzione stampata sotto con un datario a inchiostro. Lo apre alle prime pagine. Mentre legge, fa il broncio.

Lunedì 20 febbraio 2012

LE SPIE

Treno per Pisa delle 17.53
Di fianco a me, un signore tra i sessanta e i sessantacinque, coppola nera in testa dalla quale spuntano folti capelli bianco/grigi, e barba anch’essa folta e grigiastra, con grandi baffi; occhiali dalla montatura in metallo passata di moda, rettangolare. Aria sinistra. Non si è tolto né giaccone, né sciarpa. Legge “Il violinista delle danze scozzesi”, di Thomas Hardy.
Davanti a me, una giovane donna dai lineamenti anni quaranta, tipo Luisa Ferida, mi immagino la sua faccia in bianco e nero. Ha i capelli lunghi castani, con riga laterale, le sopracciglia di un colore diverso, più scuro, arcuate ad ala di rondine. Parla al cellulare e mi sembra di capire che parli in russo. Termina una conversazione, ne inizia un’altra, in una lingua piena di consonanti e di “sc”. Smette di parlare al telefonino e tira fuori un libro dalla borsa: Judith Michael, “Un certo sorriso”.
Il signore barbuto chiude il suo libro, si toglie la coppola e se la mette su un ginocchio; getta una rapida occhiata a Luisa Ferida; quindi si addormenta, a mani giunte, sembra che preghi. Luisa Ferida ripone furtivamente il libro in borsa e scende anche lei a Empoli, guardandosi intorno, circospetta.

venerdì 20 settembre 2013

L.A.Confidential



James Ellroy
L.A. Confidential

Alcune notazioni preliminari:
1) Faccio parte di un circolo di lettura dedicato a Jane Austen
2) I miei scrittori preferiti sono i grandi romanzieri russi dell’ottocento
3) Quest’inverno mi sono entusiasmata rileggendo Il piacere di D’Annunzio e Le affinità elettive di Goethe.
Facile dedurre da queste premesse come L.A.Confidential, a quanto pare uno dei migliori romanzi noir in circolazione, non rientri esattamente tra le mie letture consuete, anzi; non ho simpatia per la letteratura americana in generale, il noir non mi ha mai eccessivamente attratto e anche per la letteratura gialla d’intrattenimento trovo che un morto ammazzato a romanzo sia più che sufficiente (mentre nei noir abbondano, o almeno credo). Ho letto
L.A. Confidential perché da tempo stazionava in casa tra i libri da leggere e perché per la sua notevole mole mi sembrava adatto come lettura estiva, da ombrellone. L’approccio è stato difficile. Nella pagina iniziale un personaggio armato fino ai denti che si presenta sulla scena con dieci chili di eroina e diecimila dollari di dubbia provenienza viene brutalmente ammazzato non senza avere a sua volta trucidato almeno cinque o sei persone. La trama si snoda di morto in morto in un tripudio di schizzi di sangue, pedinamenti, turpiloquio, torture e violenze di vario tipo, inanellando una serie infinita di personaggi tra minori e maggiori il cui proliferare ha seriamente rischiato di farmi desistere dalla lettura, tanto ero confusa. Credo di aver resistito essenzialmente perché i protagonisti della storia sono poliziotti e la descrizione dell’agire della polizia americana negli anni cinquanta mi ha molto interessata, oltre che stupita. In questa storia la differenza tra poliziotti e criminali è davvero poca, per non dire nulla, e ci sono innumerevoli episodi che mi hanno fatto seriamente meditare sull’attendibilità di quanto viene narrato. I poliziotti sono corrotti, violenti, alcolizzati, drogati, frequentano prostitute, ammazzano e torturano esattamente come i criminali. Se vengono intentati processi o promosse azioni disciplinari nei confronti di un poliziotto che si è reso colpevole di qualche reato, spesso è perché un superiore gerarchico arrivista se non addirittura corrotto approfitta dell’occasione per far fuori chi può in qualche modo ostacolare la sua ascesa professionale. I poliziotti più che dall’ideale di garantire la giustizia sembrano animati dalla voglia di menare le mani contro chiunque turbi il loro concetto di equilibrio sociale e di ammazzare chi ha commesso qualche delitto particolarmente esecrabile.  
Perché uomini con queste propensioni hanno scelto di lavorare al servizio della legge? E’ stato solo un caso? E’ forse l’abitudine alla frequentazione di un certo mondo che finisce per facilitare, per osmosi, l’assimilazione di determinati comportamenti, in base al famoso detto chi pratica lo zoppo impara a zoppicare?  Certo, dobbiamo anche pensare al servizio di quale legge si sono posti questi individui. In una città violenta, in un’epoca violenta e in uno stato violento, in cui vige la pena di morte, non ci si può certo aspettare una mentalità garantista; resto comunque stupita dal fatto che un poliziotto che uccide tre evasi – imputati in attesa di processo, colti di sorpresa e disarmati – sia guardato come un eroe e venga addirittura promosso!  Questa è Los Angeles, baby, mi risponderebbe probabilmente Ellroy gettando a terra l’ultima cicca. E dunque non mi è rimasto che accantonare le sdegnate riserve
dettate dalla mia sensibilità - io così orgogliosa che la pena di morte sia stata abolita in Toscana fin dal 1786! – e portare in fondo le 500 pagine di questo noir, che, alla fine, mi ha, a suo modo, appassionata. Sono belli i tre personaggi protagonisti, poliziotti diversi per indole, storia e motivazioni, che si trovano a lavorare assieme alla risoluzione di un caso che se ne porta dietro almeno altri due, in una costruzione logica da giallo classico. E’notevole anche lo stile, così paratattico, sintetico, efficace. Avvincente la storia, al centro della quale sta il solito assassino seriale maniaco degenerato così ricorrente nell’immaginario dei narratori americani -  e si spera un po’ meno nella realtà.
Ci sono comunque varie cose che non mi sono piaciute, oltre alla violenza degli uomini di legge. Mi è spiaciuto un po’ che il mestiere in assoluto più ricorrente per le donne che compaiono nel romanzo sia quello di prostituta; e poi, che dalla storia non venga ricavato, in fondo, nessun messaggio positivo.
Ma, come forse mi direbbe Ellroy, questa è Los Angeles, baby…   

PRIMA FRASE:

21 febbraio 1950. Un motel abbandonato ai piedi delle colline di San Berdoo. Quando Buzz Meeks arrivò, aveva con sé novantaquattromila dollari, nove chili d’eroina pura, un fucile a pompa calibro 12, una 38 special, una 45 automatica e un coltello a serramanico.

ULTIMA FRASE:

Ed le baciò le guance. Lynn salì in auto, alzò i finestrini. Bud appoggiò una mano sul vetro. Ed vi appoggiò contro la sua dall’altra parte: il suo palmo era la metà. L’auto si mosse. E si mosse anche lui, di corsa, palmo contro palmo. Una svolta nel traffico, un colpetto di clacson di saluto.
Stelle d’oro. Solo con i suoi morti.

giovedì 5 settembre 2013

La maga delle spezie



Chitra Banerjee Divakaruni
LA MAGA DELLE SPEZIE

Tilo è una vecchia signora indiana che gestisce una bottega di spezie a Oakland, in California. Tilo è l’abbreviazione di Tilottama, da til, sesamo, che è il nome che ella stessa si è data; nata in uno sperduto villaggio indiano con il nome di Nayan Tara, segnata fin dalla nascita dal possesso di doti magiche e miracolose, ha passato una giovinezza avventurosa prima in compagnia dei pirati, poi in un’isola misteriosa dominata dall’Antica, o Prima Madre, una ineffabile creatura che trasforma le ragazze che si recano da lei in maghe delle spezie per poi inviarle nelle città del mondo a esercitare speciali arti magiche. Appresa dall’Antica l’arte di mettere a frutto i poteri delle spezie, Tilo si è gettata nel fuoco di Shampati e, trasformata in vecchia rugosa, si è risvegliata in America, a Oakland, all’interno del Bazar delle spezie, il suo magico regno. Qui Tilo vende la cannella per chi ha bisogno di essere preso per mano, seme di coriandolo per chi vuol vedere chiaro, trigonella contro la discordia, zenzero per infondere il coraggio necessario a dire no. Davanti al suo bancone si srotolano le storie di chi si è lasciato l’India alle spalle: Lalita, che avrebbe voluto fare la sarta ma che è obbligata a fare solo la moglie di Ahuja; Haroun, con le mani rovinate dal martello pneumatico e dal catrame, che vuol conoscere quale sarà la sua sorte; Jagiit, il bambino canzonato da tutti i compagni per la sua mitezza; il nonno di Geeta, arrabbiato con la nipote troppo americanizzata, che rifiuta l’offerta di matrimonio arrivata dall’India per fidanzarsi con Juan Cordero, un messicano. E poi Manu, Daksha, Vinod, Kwesi, tutte anime in pena che cercano di orientarsi nella vita e nel mondo, e cui Tilo consiglia le spezie più adatte alla loro ricerca. E lei, Maga potente ma un po’ribelle, cosa sta cercando? 
Le premesse di questo romanzo erano così buone… ma devo confessare che la sua lettura non mi ha affatto appassionata. Già l’inizio è piuttosto confuso, indulgendo la narrazione a uno stile puramente evocativo che lascia intuire gli snodi della trama più che descriverli; e questo, al di là di un mio personale scarso entusiasmo, può essere anche giusto, trattandosi comunque di una storia di ambientazione sostanzialmente fantastica. 

Poi, però, dopo che la nostra Maga è 
approdata in America, nelle pagine irrompe un deciso realismo, che alternandosi alla dimensione favolosa dovrebbe probabilmente suggerire il confronto tra realtà e magia, mondo terreno e sensibilità soprannaturali cui l’essenza stessa del personaggio della Maga allude. Ma il rapporto tra le due dimensioni non è reso in modo armonioso, e lo squilibrio pende talvolta da un lato, talvolta dall’altro, con il risultato che, se l’intento era quello di evidenziare quanto di magico c’è nella vita di tutti i giorni, lo scopo è del tutto fallito. I personaggi introdotti hanno destini più che prevedibili e le loro vicende vanno tutte a finire bene, ma questo è forse dovuto al fatto che l’uso delle spezie viene associato alla positività e quindi non ci si poteva certo aspettare che i rimedi della Maga non sortissero gli effetti sperati. Quanto alla protagonista del racconto, tutte le sue energie si concentrano sulla storia d’amore con un misterioso americano capitato nel suo negozio e rimasto ammaliato dal suo sguardo, unica sua caratteristica fisica interessante, dato che esternamente Tilo è una vecchia rugosa. Questo potrebbe essere un elemento originale e insolito, ma l’autrice trova il verso di banalizzare anche questo particolare, dato che la Maga si trasforma, giusto in tempo, in una donna fisicamente normale, non senza essersi tolta la soddisfazione di essere, per una notte almeno, assolutamente bellissima. Tra parentesi, anche del bell’americano, di cui viene puntigliosamente raccontata la storia dell’infanzia e del rapporto con la madre, non ho capito molto, non ho capito, cioè, se debba considerarsi una creatura soprannaturale o meno. Ma forse è un limite mio. La storia termina con un terremoto, lasciando dietro di sé più di un punto interrogativo. Tra l’altro, nella narrazione fa capolino anche la tematica del razzismo, ma è uno spunto che resta lì, irrisolto. Così come irrisolto resta per me questo romanzo.

PRIMA FRASE:
Io sono una Maga delle spezie.
ULTIMA FRASE:
“Andiamo”, dico a Raven e mano nella mano ci avviamo verso l’automobile.  
   

martedì 30 luglio 2013

La mia opera preferita / 2 "scelta con il cuore"



Soltanto in tempi molto recenti mi sono rassegnata all’evidenza che, oltre alla prediletta Turandot, il mio cuore di melomane batte per un’altra opera, peraltro sempre di Puccini: Madama Butterfly. Non a caso ho parlato di cuore, mettendo subito in evidenza la diversa origine delle mie predilezioni, dettate da motivazioni razionali per quanto riguarda la Principessa di gelo, da impulsi totalmente sentimentali in riferimento alla piccola geisha di Nagasaki.
Madama Butterfly non mi ha folgorato, non mi è piaciuta subito. Conosciuta fin da quando ero ragazzina per le arie famose, che spesso vengono  eseguite nei concerti, ascoltata abbastanza distrattamente in una incisione in vinile che possiedo ancora, protagonisti la Tebaldi e Bergonzi, sono stata costretta a conoscerla approfonditamente soltanto nei primi anni duemila, quando ho dovuto studiare la parte del coro e partecipare alla sua messa in scena. Da allora, rappresentazione dopo rappresentazione, ascolto dopo ascolto, pianto dopo pianto, quest’opera ha lentamente conquistato un posto di primo piano tra quelle che prediligo e quando, poco tempo fa, nel prepararmi a una breve trasferta mi sono chiesta quale opera dovessi portare con me per ascoltarla in viaggio, dopo aver  passato in rassegna più e più volte tutta la mia discoteca mi sono accorta che la scelta tornava a cadere puntualmente lì, sulla Madama Butterfly. Perché è un’ opera che ho sempre voglia di ascoltare, in qualunque momento, di qualunque umore io sia. E perché, in un certo senso, alla piccola geisha di Nagasaki voglio bene.
Queste considerazioni mi hanno colta di sorpresa e mi sono chiesta il perché di questo amore per un personaggio totalmente diverso dalla mia eroina operistica da sempre preferita, Turandot. Cosa c’entra questa ragazzina giapponese trepidante e ingenua, e pure ignorante dato che non sa nemmeno cosa significa “ornitologia”,  con la Principessa di gelo che tiene in pugno una nazione intera e manda a morte un pretendente dietro l’altro? Cio-cio-san è piuttosto simile a tutte quelle eroine dell’opera che come personaggi mi piacciono poco o punto, perse come sono dietro amori più o meno impossibili e che per l’uomo amato finiscono quasi sempre per morire. Eppure.
Certo in primo luogo l’attrazione è determinata dalla musica pucciniana, struggente e malinconica come non mai, e che in quest’opera ha momenti particolarmente felici; l’aria d’ ingresso di Butterfly con il coro delle amiche, il duetto d’amore del primo atto, il “duetto dei fiori” alla fine del secondo, e tutto il terzo atto, a partire dal toccante preludio strumentale  per proseguire fino allo straziante “Tu, tu piccolo Iddio”, per il quale ad ogni ascolto verso tutte, ma proprio tutte le mie lacrime.  Ma pur passando in rassegna i momenti musicali, mi accorgo che il mio legame con quest’opera risiede in qualche altra suggestione e mi ci è voluto un po’ per mettere a fuoco i termini della faccenda. Che alla fine mi si è rivelata in tutta la sua verità. C’è una tematica che permea di sé quest’ opera, da cima a fondo, e costituisce anche l’essenza stessa del personaggio di Butterfly, una tematica che evidentemente mi risuona nell’anima e che veicolata in modo mirabile dalla musica pucciniana mi fa palpitare di commozione e di empatia per la protagonista della storia.  Questa tematica è l’attesa. Cio-cio-san è una giovane donna che aspetta. Aspetta il ritorno dell’uomo di cui è innamorata, aspetta che il destino tenga fede alla sua promessa di felicità e lo riporti da lei, e in quest’attesa tutto il resto è sospeso, la sua vita non ha altro scopo che questo, quello di attendere. E mentre Butterfly aspetta il ritorno dell’amato, anche noi, come lei, aspettiamo qualcosa, piccola o grande che sia; che passi un brutto periodo, che qualcuno che ci è caro guarisca, che finisca la scuola, che la nostra vita abbia finalmente una svolta, che un amico con cui abbiamo litigato torni a sorriderci, che arrivi l’estate, che la giovinezza duri per sempre, oppure che sopraggiunga finalmente la vecchiaia. E quest’attesa assorbe le nostre energie, tutte orientate a nutrire la speranza che il nostro desiderio si realizzi, e proprio come Butterfly ci ostiniamo a scrutare l’orizzonte, impazienti di vedere quel fil di fumo che ci annuncerà la fine del nostro stato di ansiosa sospensione. Un’attesa fiduciosa, spavalda quasi, che ci porta a trattare con sufficienza - se non con sprezzo - quanti cerchino di ricondurci a un sano realismo, in grado di proteggerci dalla possibile delusione: “Tienti la tua paura, io, con sicura fede, l’aspetto!” canta speranzosa Butterfly rintuzzando i timori di Suzuki. E quell’acuto, quel si bemolle su cui termina “l’aspetto”, è lo slancio ottimista con cui ciascuno di noi cerca di ipotecare il futuro. “Un bel dì vedremo” tratteggia con minuzia di particolari il tanto agognato ritorno di Pinkerton, è lo strappo in avanti di Cio-cio-san, così come il primo atto dell’opera, più che l’inizio della storia, mi è sempre sembrata una sorta di flash-back, il riandare ossessivo della geisha ai ricordi di quella memorabile giornata, del primo incontro, della prima notte di nozze, ripercorsi con maniacale precisione, con l’attardarsi su dettagli quasi inutili e un po’ noiosi, tutti i piccoli accadimenti della giornata, passo dopo passo, l’incontro con Lui, e poi l’arrivo dei parenti, i gesti compiuti durante la cerimonia, quel che ha detto tizio e quel che ha detto caio, via via fino all’ irrompere sulla scena dello zio Bonzo, ti ricordi com’è stato terribile, eh sì davvero un brutto momento, mi hanno rinnegata, e Lui, Pinkerton, mio marito, lui ha saputo consolarmi, mi ha detto “ i bonzi tutti del Giappone non valgono il pianto di quegli occhi cari e belli”…

L’attesa di Butterfly dura tre anni… alterna momenti di sconforto e di ottimismo, finché gli eventi registrano la contrazione finale e sembra proprio che il sogno della geisha stia per realizzarsi; dal momento in cui ella scorge la nave da guerra che attracca nel porto, l’ inquietudine imbocca il suo ultimo tratto e diventa uno spasmo ingovernabile, che ella cerca di domare cogliendo tutti i fiori del giardino per adornare e profumare la casa che accoglierà l’uomo tanto atteso. Ma la smania è talmente forte che non ci sono gesti o parole che possano addomesticarla, e gli spasmi della lunga ultima notte di attesa si concretizzano nel mormorio di un coro a bocca chiusa, esemplificazione dello stadio estremo della tensione emotiva che non trova modo di esprimersi se non attraverso un malinconico mugolìo.
L’attesa di Butterfly si rivela del tutto inutile. Per quanto Pinkerton abbia fatto ritorno a Nagasaki e si sia persino recato nella casetta che aveva occupato in occasione del suo matrimonio giapponese, Butterfly neppure lo incontra. Saputo per certo che la felicità le sarà negata, ella si uccide; e con lei muoiono anche le nostre aspettative non soddisfatte, le speranze deluse, i sogni mancati.
E l’unica consolazione resta quella di riandare con la memoria ai particolari del nostro sogno bello, nonché riascoltare all’infinito la musica che più di ogni altra sa esprimere lo stato sospeso dell’anima che attende. 

mercoledì 19 giugno 2013

Chi ha paura di Lady Macbeth?



Tra pochi giorni assisterò al Macbeth di Verdi nell’ambito della stagione del Maggio Musicale Fiorentino. Lo mettono in scena alla Pergola, per ricordare che qui fu presentato la prima volta, il 14 marzo 1847, con Giuseppe Verdi trentaquattrenne sul podio. Protagonisti di quel memorabile debutto furono due cantanti singolari, Felice Varesi, che col suo fisico tarchiato e un po’ sbilenco sarebbe stato pochi anni dopo il primo Rigoletto, e Marianna Barbieri Nini, soprano fiorentino, cantante temperamentosa di leggendaria bruttezza, preferita da Verdi ad altre cantanti dalla voce armoniosa e risonante perché per la sua Lady Macbeth lui voleva “una voce aspra, soffocata, cupa”. La tinta cupa caratterizza tutta l’opera, gli unici squarci di colore sono rappresentati dal rosso del sangue che si sparge sul percorso dei due malefici coniugi Macbeth via via che si accumulano i cadaveri. E’ un’opera anomala, che non tratta dei classici intrecci amorosi ma illustra la corsa ineluttabile e sanguinaria di Macbeth e della moglie dietro la loro smania di potere; corsa che anziché al potere li condurrà alla morte. Che, in senso ampio e filosofico, forse sono la stessa cosa
Macbeth mi piace moltissimo, è un’opera cui mi sono accostata da adulta, ascoltandola al Maggio Musicale Fiorentino per la prima volta nel 1995, poi nel 2002, in questa seconda occasione con la suggestiva regia di Marius Nekrosius. Ne possiedo un’incisione della DECCA, direttore Riccardo Chailly, protagonisti Leo Nucci e Shirley Verret; si tratta in realtà della “colonna sonora” di  un film del regista francese Claude D’Anna, un film vero e proprio, non la ripresa teatrale di uno spettacolo, ed è tale la mia devozione a questa incisione, e soprattutto alla impareggiabile interpretazione della Verret, che ho acquistato anche il dvd del film. Una pellicola angosciante, scura dall’inizio alla fine, con le streghe – che, com’è noto, con i loro vaticini sono il motore del dramma - rappresentate come creature immonde, a metà tra esseri umani e bestie, in una Scozia dell’anno mille desolata e assai poco attraente. La rappresentazione del banchetto in onore di Macbeth, appena asceso al trono regio – che immagineremmo fastosa, condizionati come siamo dalle sontuose messe in scena teatrali – nel film è ambientata in una sala del palazzo che pare uno scantinato, con un manipolo di invitati uno più brutto dell’altro, dalle facce e dai vestiti grigiastri,  senza alcuna traccia del lusso e del fasto che siamo soliti associare alla nostra moderna idea di ambiente di potere. Una descrizione realistica, insomma, diametralmente opposta ad altre scelte registiche che invece optano per un linguaggio più in linea con le convenzioni del teatro d’opera (penso alla regia di Liliana Cavani per un Macbeth di qualche anno fa al Regio di Parma, in cui si effettuava una trasposizione della vicenda in epoca elisabettiana, contemporanea cioè a Shakespeare; ed ecco i personaggi indossare grandi e candide gorgiere inamidate, e la scena del banchetto  - chiara e brillante  - con dame e cavalieri che intrecciano danze sfoggiando accurate e bellissime mise secentesche.)

La regia del Macbeth di Nekrosius vista al Comunale anni fa, fortemente simbolica,  era caratterizzata da scelte minimaliste, con pochi elementi in una scena di due soli colori: bianco e nero. Il palco era tagliato a metà da una strada, simbolo del destino dei due protagonisti. E le streghe erano donne scattanti e belle, dotate di capigliature lunghissime che facevano voluttuosamente volteggiare ad ogni loro apparizione.
Non ricordo le interpreti dei Macbeth fiorentini cui ho assistito; la “mia” Lady resta la Verret, diretta musicalmente da Chailly e registicamente da D’Anna. Trovo irresistibile la sua scena d’ingresso: Lady legge la lettera in cui il marito le annuncia che le streghe gli hanno vaticinato il trono, quindi si rivolge idealmente a Macbeth incitandolo ad affrettarsi a cogliere la sua grande occasione e finisce per invocare gli spiriti del male perché sostengano il consorte a non indietreggiare davanti a nulla, omicidio compreso. Nel film di D’Anna la Verrett, con i capelli tirati indietro a scoprirne il viso angoloso, nero e bellissimo, grandi pendenti alle orecchie, un sontuoso mantello argenteo bordato di pelliccia a coprire il corpo imponente, legge la lettera e canta la sua cavatina scendendo nelle segrete del castello, dove alcune emaciate figure di prigionieri si affacciano dalle sbarre per ascoltare il suo febbricitante canto malvagio; simbolica discesa agli inferi e nei recessi più profondi del male.
Così come impareggiabile trovo la scena del “sonnambulismo”, cui sappiamo che Verdi teneva in modo particolare, attribuendo alla sua riuscita il successo o meno di tutta l’opera. Lady Macbeth soltanto nel sonno, e quindi in una condizione di incoscienza, cede di fronte alla consapevolezza dei suoi crimini, rivedendo ossessivamente i delitti perpetrati assieme al marito; la Verrett si aggira per il suo funereo palazzo con una specie di tonaca grigia, struccata, disadorna, torcendosi le mani che nel suo delirio vede ancora imbrattate di sangue. Mani bellissime, dalle dita affusolate e regali, con unghie lunghe che non possono che rammentare artigli rapaci. Lady Macbeth è travolta e infine uccisa dalla pur incosciente consapevolezza dei propri misfatti. Ma consapevolmente resta perfida fino all’ultimo, coerente con la malvagità innata del suo animo. Non così Macbeth, che fin dall’inizio appare ambizioso ma esitante, smanioso di affermarsi ma timoroso, e che mostra subito di non poter reggere psicologicamente l’enorme peso dei delitti commessi; ha visioni e allucinazioni, è ossessionato dai fantasmi evocati dalle streghe, si sente costantemente minacciato. Pur cattivo, è un debole.
E grazie a questa sua certa forma di “sensibilità”, Macbeth ci regala, nel testo di Shakespeare, una pagina di inarrivabile pessimismo nichilista.
Gli annunciano che la regina è morta. Ecco il suo commento:
“Via, consumati, corta candela!
La vita è soltanto un’ombra errante,
un guitto che in scena
s’agita un’ora pavoneggiandosi, e poi
tace per sempre: una storia narrata
da un idiota, colma di suoni e di furia,
senza significato.”
Che nell’opera verdiana così viene reso dall’abile librettista Piave:
“La vita, che importa?
E’ il racconto di un povero idiota
Vento e suono che nulla dinota.”
Come non pensare a un passo di una lettera scritta da Giuseppe Verdi a Clara Maffei nel 1883:
“Gli anni cominciano proprio ad essere troppi e penso… penso che la vita è la cosa più stupida, e quello che è ancor peggio, inutile! Cosa si fa? Cosa abbiam fatto? Cosa faremo? Stringendo ben tutto la risposta è una… umiliante… tristissima: NULLA!”
Insomma in questi animi maschili si agita il fantasma del dubbio, dell’incertezza, della crisi; non così nell’animo della ferrea Lady, che, pur rivedendo nel sonno il susseguirsi dei suoi misfatti, sembra rammaricarsi soltanto di non riuscire a pulirsi le mani, esponendosi così al rischio di essere scoperta! E chissà che non sia proprio la paura di non sfangarla a tenere a bada i nostri istinti peggiori, più di qualunque principio morale? Cosa faremmo se avessimo la certezza dell’impunità? E’ questo il dubbio atroce che la storia dei due coniugi criminali evoca potentemente in noi, rinnovando ogni volta il desiderio di sentirla narrare da capo? Chi ha paura di Lady Macbeth?  






domenica 2 giugno 2013

Lettori in viaggio / 10



13 dicembre 2011
LA MONOCOLA E IL FREQUENTATORE DI BIBLIOTECHE

Treno per Firenze delle 7.22
Un treno che viene da Siena, stracolmo di studenti che escono a decine e decine, sembrano non finire mai.
Salgo e trovo subito da sedere. Di fronte  a me, una donna sui tentacinque, con i capelli castano/ramati, lisci, lunghi, con un ciuffo sulla fronte così compatto che le copre completamente l’occhio sinistro. Ha un naso importante, niente trucco, vistose borse sotto gli occhi, o almeno sotto l’occhio visibile, che pare verde chiaro.  Ha un corto giubbetto di pelle con un bel collo di pelliccia, pantaloni sportivi color fango, stivaletti. Legge “L’educazione delle fanciulle”, di Franca Valeri e Luciana Littizzetto; sul retro di copertina vedo che ci sono vistosi adesivi con codici a barre, tipici dei libri acquistati a sconto al supermercato. All’altezza di Montelupo chiude il libro, lo infila in borsa e si mette a smanettare sul cellulare.
Accanto a me, un signore distinto sui cinquantacinque, capelli radi e fini castano chiaro, occhi azzurri, occhiali appesi al collo con una cordicella, un bel vestito di tessuto operato che forma minuscoli quadrettini bianchi e grigio/verdi, sotto una camicia azzurro chiaro, cravatta blu, belle scarpe marroni. Legge un libro dalla copertina di un rosso squillante, ha infilato tra le pagine a mò di segnalibro una striscia di cartoncino su cui sta scritto Biblioteca Vallesiana.
Anche lui più o meno a Montelupo smette di leggere, si mette il libro in grembo (“Ratti rossi”, Xiaolong Qiu) , appoggia la testa e dorme. 

22 dicembre 2011
PRECIPITOSA RICERCA DELLA FELICITA’

Treno da Firenze delle 16.28
Una volta partiti, dato che accanto a me non c’è nessuno, appoggio sul sedile vicino al mio borsa e portacomputer. A Rifredi una ragazza appena salita mi fa: “Posso?” e non appena libero il posto si siede precipitosa, quasi gettandosi. Indossa un piumino imbottito lungo color verde, con il cappuccio contornato di pelliccia, anch’essa verde. La sbircio di profilo, ha i capelli corti e lisci sul castano/rossiccio, porta occhiali dalla montatura verde. Estrae da una borsa un libro, un volumetto sottile, piegato su se stesso: “Felicità in questo mondo. Un percorso alla scoperta del buddismo e della Soka Gakkai”. Si mette a leggerlo scorrendo le righe con il dito, ha le unghie curate, laccate di smalto trasparente. Quando il treno arriva a Lastra a Signa, non più di dieci minuti da quando è salita, alza la testa dal libro e si accorge che è la sua fermata, scatta su e si precipita all’uscita.  

23 dicembre 2011
LA GIOVANE CONTADINA RUSSA

Treno da Firenze delle 18.10 
Di fronte a me una donna giovane, ma non giovanissima, fuori moda, fuori tempo; robusta, faccia larga, tonda, assolutamente priva di trucco, naso a patata, labbra sottili, capelli castani corti con ciuffo fermato di lato da una molletta; un maglione marrone a collo alto, pantaloni neri di velluto sciupacchiati e lisi sui ginocchi, scarpe da ginnastica nere un po’ infangate. Il maglione è ampio, ha dovuto arrotolare le maniche troppo lunghe; al polso sinistro, un orologio swatch nero; all’anulare la fede. Sembra una giovane e robusta contadina russa. Sulle ginocchia tiene ben aperto un libro voluminoso, dalla copertina cartonata, con la sovraccoperta dai tenui colori pastello. “Ho un castello nel cuore”, di Dodie Smith. Legge composta, senza muoversi. Le suona il cellulare, risponde in italiano, ma con un forte accento slavo. “Arrivo tra dieci minuti”.