sabato 13 aprile 2013

La mia opera preferita / 1 "scelta con la testa"


Non ho mai avuto dubbi nell’indicare in Turandot la mia opera preferita. Fin dai primi ascolti, da ragazzina, in una incisione in vinile che circolava per casa – con la Callas – o in un VHS che aveva per protagonista l’impressionante Dimitrova – la principessa di gelo mi conquistò. Quando poi l’ascoltai dal vivo, per la prima volta, nell’estate del 1988, a Torre del Lago, protagonista Olivia Stapp, fu siglato un patto d’amore imperituro tra me e la divina principessa. E si è sempre trattato di un amore incondizionato per lei, la protagonista: tutti gli altri personaggi mi dicono poco, o nulla. Antipatico Calaf, melensa Liù, semplici macchiette le tre maschere, lamentoso l’Imperatore, vecchio tremebondo Timur. Su questa pletora di personaggi di mezzatacca, Turandot s’impone altera e inarrivabile, per statura morale e politica; ferma nella sua volontà di vendetta della ava Lou-Ling, violentata e uccisa da un principe straniero, ella riscatta tutte le donne in vario modo stuprate in tutte le epoche dall’eterno straniero, dal maschio, sovrano e tiranno delle esistenze femminili. E lo fa senza esitazioni, in base a un ferreo principio, un principio addirittura cristallizzato in una legge, che, come ben sa il popolo di Pechino, è questa:

Turandot, la pura, sposa sarà
di chi di sangue regio
spieghi i tre enigmi
ch’ella proporrà
ma chi affronta il cimento e vinto resta
porga alla scure la superba testa.

Non ci sono attenuanti, mezze misure, giustificazioni, considerazioni. Sbagli? Ti decapito. L’uomo fallisce la prova e Turandot ordina al boia di affilare la scure; e questo è tutto.
Turandot è cattiva? No, è coerente; e poi, in fondo, si limita ad applicare una norma, agisce secondo diritto. Tutti conoscono la legge che vige a Pechino, tutti sanno che Turandot è inflessibile nell’applicarla; quindi i prìncipi che si sottopongono alla prova dei tre enigmi sono pienamente consapevoli di che cosa li aspetti se falliscono. Eppure, ci provano lo stesso, pur sapendo che gli indovinelli sono di una tale difficoltà che le loro probabilità di successo sono ridotte al minimo; pensano di riuscire a sfangarla in qualche modo, con la tipica protervia maschile che fa loro pensare di essere in grado di superare qualunque prova, soprattutto se di mezzo c’è una donna, con la quale l’hanno avuta vinta dalla notte dei secoli.
Leporello, nel Don Giovanni di Mozart, nel celeberrimo catalogo “delle belle che amò il padron mio” elenca le conquiste amorose del burlador di Siviglia, che ammontano a più di duemila unità. E Ping, Pong e Pang, i tre ministri imperiali, elencano il numero di prìncipi caduti sotto la scure del boia di Turandot: l’anno del Topo furon sei, l’anno del Cane furon otto, e nell’anno in corso, il terribile anno della Tigre, siamo già al tredicesimo con questo che va sotto! Ventisette in tutto, non male se si pensa che la ragazza è comunque giovane, io la immagino non più che ventenne. Certo ventisette teste mozzate sono niente in confronto ai duemila cuori infranti da Don Giovanni; ma il gap è colmato dalla considerazione che i cuori infranti forse si potranno, un giorno, rimarginare, non così le teste recise, rotolate via dal corpo dei loro padroni, per sempre estromessi  dall’esperienza della vita.
Turandot, quindi, assurge al ruolo di riscattatrice delle migliaia di donne sedotte e abbandonate dai Don Giovanni di tutti i tempi. Per questo si è guadagnata la mia predilezione, perché è una donna  anomala tra tutte quelle che incontriamo nel variegato mondo del teatro d’opera;  una donna di potere, che non piange e si dispera per amore, ma pensa a governare con mano inflessibile il suo regno senza lasciarsi distrarre da faccende di cuore e risolvendo in modo assai razionale la questione dei pretendenti che via via le si parano dinanzi. Turandot è bellissima, algida, inarrivabile, e dall’alto del suo  trono fa quel che può per vendicare la memoria dell’ava che ha avuto un destino così infelice:

Pure nel tempo che ciascun ricorda
fu sgomento, terrore e rombo d’armi
il regno vinto!
E Lou- Ling, la mia ava, trascinata
da un uomo come te,
come te straniero
là nella notte atroce
dove si spense la sua fresca voce

E la voce di Turandot non è fresca, a dispetto della sua giovane età il personaggio ha una vocalità il più possibile  lontana dal bamboleggiante cinguettio delle donne innamorate protagoniste delle opere e sue colleghe; la sua voce svetta in acuto scura come un grumo di sangue e tagliente come una lama, quasi per tranciare non solo quelle teste che poi finiranno realmente mozzate dalla scure del boia, ma anche quelle di tutti gli ascoltatori.

Come ognun sa, Puccini non ha portato a termine la sua ultima opera, stendendola soltanto fino al suicidio di Liù, personaggio che rappresenta l’esatto opposto di Turandot: umile schiava, votata al sacrificio, innamorata di Calaf “perché un dì, nella reggia, m’hai sorriso”, e per quel sorriso disposta a tutto, anche a morire per salvare la vita di quel principe, innamorato perso di un’altra. Insomma la più completa personificazione della tradizionale donna remissiva, che trova il modo di riscattare la propria modesta condizione personale soltanto immolandosi sull’altare del sacrificio supremo, quello del morire per un uomo. Puccini è morto mentre si attardava a trovare un finale convincente per la sua Turandot; si dibatte del perché stentasse tanto a concludere l’opera. In effetti, rendere in modo plausibile il voltafaccia di Turandot, che dopo due atti di slogan iperfemministi cede a Calaf soltanto perché egli la bacia, appare impresa assai ardua. In pratica si tratta di sancire il primato del richiamo del corpo e della sessualità sulla ragione e sull’adesione ai princìpi ideali. Ha un bel vociare Turandot, al momento in cui un uomo l’abbraccia e la possiede non è capace, persino lei, di sottrarsi al destino che evidentemente pare accomunare tutte le donne, anche quelle che, come lei, hanno provato seriamente a sottrarvisi.
Ma Puccini non era convinto di questo finale,  e gli girava attorno, indeciso. Per la prima volta aveva dato voce a una donna dalla personalità unica, così lontana dagli stereotipi, e forse avrebbe preferito, in nome della coerenza e dell’amore che sicuramente portava per quella sua ultima eroina, regalarle una fine meno ingloriosa del prevedibile matrimonio con Calaf, che, solito uomo furbone, in un colpo solo si sposa e diventa Re, e sicuramente provvederà quanto prima a ingravidare più e più volte  la sua sposa, mettendo a repentaglio la divina bellezza del suo fisico e distogliendola per sempre dagli affari di governo. Mi piace pensare che Puccini, al di là del libretto, che a quel punto era già scritto, accarezzasse l’idea di far decapitare dal boia pure Calaf,  prevedendo per la sua principessa di gelo un regno sempiterno, dispotico e asessuato, in cui i prìncipi continuassero a sottoporsi agli enigmi senza risolverli, mentre Turandot dall’alto degli spalti del palazzo reale continuasse a gridare per l’eternità, fiera e inarrivabile, “No, mai nessun m’avrà.”


Ghena Dimitrova canta "In questa reggia" - La scala 1983

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