Non avevo mai letto nulla di Stephen
King, eccezion fatta per “On writing”, una sorta di autobiografia del mestiere,
in cui lo scrittore americano parla dell’arte dello scrivere pur senza comporre
un manuale di scrittura. Quel libro mi era piaciuto molto; stile piacevole,
formula originale - un po’ diario, un
po’ confessione, un po’ chiacchierata – e poi tanti consigli utili sulla
scrittura, semplici, diretti, veri, tipo: Se volete fare gli scrittori, ci
sono due esercizi fondamentali: leggere molto e scrivere molto. Non conosco
stratagemmi per aggirare questa realtà, non conosco scorciatoie. Però non
avevo letto nemmeno un suo romanzo. Le sue tematiche non mi attraggono,
l’horror non mi ha mai interessato né in letteratura né al cinema, il soprannaturale
proprio non rientra tra le mie preferenze saldamente ancorate alla realtà delle
cose, dei fatti e delle persone. Però mi sembrava brutto non aver letto nulla
di un autore così prolifico e di successo, molto amato, tra l’altro, da mio
fratello e da mio figlio… e così mi sono decisa, e ho scelto di leggere “Shining”.
Sono sicura che la visione del film non la reggerei – i film di paura mi fanno, appunto, troppa paura
– ma pensavo che la lettura del libro avrebbe potuto appassionarmi. Però devo
ammettere che così non è stato. Non so perché, credo molto abbia a che vedere
col fatto che la mia è una natura estremamente realista e se mi vengono a
raccontare che uno ha le visioni e riesce a rivivere le cose del passato o a
vedere quel che succederà nel futuro la cosa mi lascia indifferente; a pensarci
bene, sono gli aspetti propriamente fantastici delle narrazioni che proprio non
mi attirano, per esempio quando nei romanzi succede che i personaggi raccontino
i loro sogni, in genere scorro velocemente il passo, o addirittura lo salto del
tutto. E così non ho simpatizzato con questo bambino dotato di potere
extrasensoriale, lo “shine”, così come l’intera vicenda dell’entità sinistra
che possiede l’Overlook Hotel e che finisce per
sopraffare il suo guardiano invernale
impadronendosi di lui e portandolo alla morte non mi ha poi molto appassionato;
insomma ho letto questo libro con un po’ di fatica. Il fatto è che mentre
leggevo non riuscivo a immaginarmi le visioni, i morti che tornano, le voci che
riecheggiano nei corridoi, i cigolii sinistri, proprio perché il mio cervello è
refrattario alla dimensione fantastica e quindi non riesce a elaborare scene
irreali. Riconosco che il libro è scritto bene e dal punto di vista letterario
è un prodotto che non fa una grinza. Ma io non ne sono rimasta colpita, non mi ha coinvolta. Quando ho finito
l’ultima pagina e, come faccio solitamente al termine di una lettura, mi sono
chiesta quale fosse, per me, il nucleo centrale del romanzo, il tema fondamentale,
insomma il messaggio che il testo mi ha fatto arrivare, ho creduto di scorgerlo
nella riflessione sull’immortale tema del rapporto padre-figlio. Nel romanzo le
forze del male cercano di impossessarsi sia del padre - e alla fine ci riescono – che del figlio –
il piccolo Danny, di soli cinque anni; ma quest’ultimo, che teoricamente
dovrebbe essere il soggetto più debole e quindi più facilmente conquistabile,
riesce ad opporsi all’attacco delle “presenze” fronteggiando, nel drammatico finale, il
proprio padre ormai posseduto, e riuscendo ad avere la meglio su di lui. Il quale
morirà tra le fiamme dell’Overlook Hotel mentre Danny si metterà in salvo con
la mamma. Per crescere bisogna uccidere il proprio padre, o farlo
perire tra le fiamme, insomma inventarsi qualcosa per liberarsene... il tutto metaforicamente, s’intende…
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