Ho
finito il 2012 leggendo “Le particelle elementari” di Michel Houellebecq, scritto alla fine
degli anni ‘90. Un romanzo complesso e inquietante che mi ha dato parecchio da
riflettere; non solo e non tanto per come è scritto, ma per il tema che tratta,
che potrebbe essere riassunto in estrema sintesi come la storia dei tentativi
compiuti recentemente dall’umanità per raggiungere la felicità e allontanare il
dolore, attraverso i movimenti e le mode che si sono susseguite e intrecciate
nel secolo scorso: gli hippy, la new age, le filosofie e le meditazioni, la
liberazione sessuale… tutti tentativi, secondo l’autore, miseramente falliti.
L’uomo è rimasto solo e inerme davanti alla sofferenza, all’incomunicabilità e
alla morte; in questo quadro apocalittico, il libro si chiude ipotizzando
inquietanti scenari futuri.
Michel
Djerzinski e Bruno Clement sono fratellastri; la madre Janine ha abbandonato
entrambi, insieme ai loro padri, per
correre dietro alla sua esistenza libertaria e sregolata. Michel, allevato in
un clima tutto sommato amorevole dalla nonna, eccelle negli studi e diventa uno
scienziato dedito alla biologia molecolare, vicino al Nobel; Bruno invece,
cresciuto tra le angherie e le prepotenze del collegio, pur riuscendo a
costruirsi una esistenza “normale”, con una professione e una famiglia
regolare, è schiavo delle proprie ossessioni sessuali.
Michel
vive un’esistenza emotivamente asettica, è incapace di provare sentimenti di
affezione e condivisione con gli altri esseri umani; la sua storia adolescenziale
con la bella e dolce Annabelle non decolla a causa della sua freddezza, e i due
vivranno una “seconda occasione” in età matura, che però è anch’essa destinata
al fallimento. Annabelle, che ha chiesto a Michel un figlio, ma che non è
riuscita a portare avanti la gravidanza a causa dell’insorgere di un tumore,
consapevole della propria imminente fine, si uccide.
Bruno,
per parte sua, ha esperienze sentimentali insoddisfacenti; brutto e grasso,
maniacalmente attratto dalle donne e soprattutto dalle adolescenti, pur
riuscendo a sposarsi e ad avere un figlio, si sente sopraffare dal malcontento,
si separa, si lascia andare alla deriva della bulimia e del sesso compulsivo,
fino a quando non incontra Christiane, anch’essa separata e con un figlio adolescente
che le dà problemi. Con questa donna, libertaria e disinibita, forse potrebbe
raggiungere una qualche forma di equilibrio, tra confidenze e ammucchiate
varie -
descritte in pagine obbiettivamente pornografiche. Ma Christiane,
ammalatasi gravemente, resta paralizzata, e si uccide. Le ossessioni che da
sempre tormentano Bruno lo avvincono in una spirale morbosa e oscena e lo
portano, infine, alla clinica psichiatrica.
Sia
il mondo razionale di Michel che quello patologico di Bruno sono desolatamente dominati
dalla solitudine e dal caso; non c’è luce nelle loro esistenze.
Nella
parte finale del romanzo Michel si trasferisce in Irlanda, dove, vivendo in uno
stato di solitario distacco, affina e conclude i suoi studi scientifici sulla
biologia molecolare pubblicando una serie di trattati prima di sparire,
probabilmente suicida. Grazie alle sue intuizioni, la comunità scientifica
trova il modo di studiare e poi mettere in pratica il superamento del genere
umano attraverso la creazione di una nuova specie, per la quale il sesso non è
fondamentale per la propria riproduzione. Il nuovo genere umano, geneticamente
esente da tutti i difetti del vecchio, è composto da individui tutti con il
medesimo patrimonio genetico e quindi non portatori di singole personalità; del
resto, proprio questo elemento – la differente personalità degli individui –
era stata la fonte della maggior parte delle sventure dell’uomo.
La
nuova umanità, una specie asessuata e immortale, al di là dell’individualità,
della separazione e del divenire, è una umanità riconciliata, ragionevole, e
quindi felice. Il genere umano, dunque, grazie soprattutto alle geniali
intuizioni di Michel Djerzinski, è la prima specie animale dell’universo
conosciuto a organizzare essa stessa le condizioni della propria sostituzione.
Nel
libro si alternano brani di tono nettamente scientifico, lucidi e distaccati
proprio come si trattasse di un saggio di fisica, biologia o antropologia, a
periodi e descrizioni caratterizzate da
una volgarità quasi insopportabile. La narrazione è pervasa di assoluto
cinismo, le descrizioni sono
disumanizzate, simili all'osservazione del naturalista. Tra i personaggi
i rapporti intercorrono senza che ci siano scambi emotivi, condivisioni, palpiti
di alcun genere. Ci sono intuizioni di un pessimismo totale, desolanti ma
basate su argomentazioni fondate: la crisi della paternità, l'orrore della
preadolescenza, la competizione tra maschi, l’inutilità della psicoanalisi e
delle pratiche terapeutiche alternative. Su tutto incombe la paura della
vecchiaia e della morte.
Mi
ha colpito, come già mi era successo leggendo, tanti anni fa, un altro romanzo
di quest’autore, “Piattaforma”, l’ambivalenza con cui Houellebecq dipinge la
figura femminile; soggetto verso il quale il maschio tende con tutte le sue
forze, in modo ossessivo, e dai cui comportamenti spesso dominati da egoismo e
autoreferenzialità in un certo qual modo disumani, discendono per l’uomo
infiniti problemi di identità e autostima; ma anche unico mezzo per
raggiungere, forse in modo illusorio, una qualche forma di stabilità e di
equilibrio, se non proprio di felicità.
Ecco
le ultime parole del romanzo: “Questo libro è dedicato all’uomo”; ma non
all’uomo clonato e perfetto che compare nel visionario finale del racconto; è
dedicato all’uomo appartenente alla vecchia specie; questa “specie sventurata e
coraggiosa…dolorosa e vile, di poco diversa dalla scimmia, e che pure recava in
sé aspirazioni assai nobili. Questa specie tormentata, contraddittoria,
individualista e rissosa, di un egoismo sconfinato, talvolta capace di inaudite
esplosioni di violenza, ma che tuttavia non cessò mai di credere nella bontà e
nell’amore.” Questa specie che siamo noi…