La
mia migliore amica Simonetta nutre un’autentica passione per Daphne Du Maurier,
scrittrice inglese nota soprattutto per il romanzo “Rebecca la prima moglie” e per
il racconto “Gli uccelli”, da cui Hitchcock trasse memorabili film. Tanti anni
fa, alla vigilia di un mio viaggio in Cornovaglia, Simonetta mi prestò il
romanzo “La casa sull’estuario”, che appunto in Cornovaglia fu scritto ed è
ambientato. Il caso volle che mi trovassi ad alloggiare per qualche notte
proprio nella casa di Fowey che aveva ospitato la
Du Maurier durante la stesura di quel
romanzo; questa circostanza mi sembrò piuttosto inquietante. A distanza di
tanti anni, di quella casa ricordo soltanto il bagno, di dimensioni
assolutamente insolite; una stanza enorme e luminosa, dal pavimento giallo
chiaro, in cui la parete occupata dai
sanitari era fronteggiata da un vezzoso salottino con poltroncine e tavolinetto
di bambù.
Per
il mio ultimo compleanno Simonetta mi ha regalato “I parassiti”, scritto dalla
Du Maurier nel 1949. Il volume ha
stazionato per diversi mesi sul mio comodino
prima che mi decidessi a leggerlo, forse scoraggiata dalla mole; 345
pagine non sono uno scherzo. Una volta iniziato, però, l’ho terminato in
fretta. Volendo riassumere in estrema sintesi e con formule di rito il perché
questo romanzo mi è piaciuto, potrei dire che la scrittura è scorrevole, la
trama è avvincente e i personaggi sono ben tratteggiati. Si sente che l’autrice
descrive un mondo che conosce bene, quello del teatro; la
Du Maurier proveniva da una famiglia di
impresari teatrali e attori, ed è appunto tra camerini, palchi e platee che
crescono i tre fratelli Delaney, Maria, Niall e Celia, “variamente” figli di
Mamma e Papà Delaney, l’una famosissima danzatrice, l’altro famosissimo
cantante. “Variamente”, poiché ciascuno di loro è frutto di una diversa
combinazione relazionale. Maria è la figlia che Papà ha avuto da una giovane
attrice viennese, Niall è il figlio che Mamma ha avuto da un pianista francese.
Celia è la figlia che Papà e Mamma hanno avuto insieme. I tre crescono nell’Europa
tra le due guerre mondiali, sballottati tra una tournée e l’altra dei famosi
genitori, e sono pestiferi, solidali e insopportabili. Maria e Niall mettono a
frutto il talento che hanno ereditato, e diventano lei una famosa attrice, lui
un famoso compositore di canzonette; Celia, schiacciata dal senso del dovere,
per quanto dotatissima disegnatrice, preferisce dedicare la sua vita all’accudimento
di Papà, rimasto precocemente solo a seguito della tragica morte di Mamma.
Maria sposa Charles Wyndham, giovane rampollo della nobiltà campagnola inglese,
e lo sposa non tanto per amore, ma perché affascinata dalla possibilità di
recitare la parte dell’onorevole signora Wyndham.
Ed è Charles, molti anni
dopo, a rivolgersi ai tre fratelli chiamandoli “parassiti”; i tre sono ormai
adulti, anche Papà è morto, e tutti i fine settimana si ritrovano nella casa di
campagna di Maria, continuando ad alimentare il loro sodalizio fraterno e
ambiguo. Ecco le accuse di Charles: “Siete due volte, tre volte parassiti;
primo, perché avete sempre approfittato fin dall’infanzia di quel pizzico di
talento che avete avuto la fortuna di ereditare dai vostri fantastici antenati;
secondo, perché nessuno di voi ha mai lavorato in modo semplice e onesto in
tutta la sua vita, ma vi siete limitati a ingrassare a spese del popolo bue che
vi consente di campare; terzo, perché siete l’uno il parassita dell’altro, e
vivete in un mondo di fantasia che vi siete creati e che non ha alcun rapporto
con la realtà, né in cielo né in terra.” Interessante esemplificazione del modo
sprezzante con cui certa ottusa borghesia considera il mestiere e la vita
dell’artista.
Charles
vede i tre fratelli dall’esterno, ma la narrazione è in genere condotta dal loro punto di vista e non
presenta quindi i tratti dell’oggettività che ci permetterebbe di capire fino
in fondo quanto questi personaggi siano negativi, quanto i loro comportamenti
siano sinceri o dettati da intenzioni particolari. Difficile, alla fine,
giudicarli, difficile capire se ci piacciono o no, se li capiamo o no. Niall e
Maria sono, forse, amanti. Di sicuro sono legatissimi tra loro, chiusi in una
diade strettissima e impenetrabile, in cui a tratti soltanto Celia sembra in
grado di avere accesso.
Al
di là della trama e della riuscita generale del romanzo, mi piace soffermarmi
su un capitolo che ho trovato davvero esilarante e che non mi sarei aspettata
da una scrittrice come la Du Maurier; un
punto del romanzo in cui la narrazione è francamente leggerissima e divertita,
ironica e bozzettistica.
I
Delaney si recano in visita ai Wyndham, nella loro tenuta di Coldhammer, poco
dopo il matrimonio di Charles e Maria.
Oltre
a Papà, Niall e Celia fa parte del gruppo di ospiti anche Freada, una
eccentrica francese con cui Niall ha una relazione per quanto la donna sia di
molti anni più anziana di lui, tanto da poter essere scambiata per sua
madre.
Il
viaggio nasce subito sotto una cattiva stella: Papà prepara un bagaglio
eccessivo, portando addirittura una valigia piena di medicinali, un bastone di
malacca, una camicia hawaiana, sandali intrecciati, un volume di opere di
Shakespeare e una edizione integrale del Decameron, e rilasciando una
memorabile dichiarazione: “Quando faccio le valigie le faccio per l’eternità.”
Freada,
al contrario, porta troppo poco. “I suoi averi erano involtati nella carta, e
aveva a tracolla una borsa, genere postino, che conteneva un abito da sera.(…)
Aveva esagerato con il vestito. Il lungo abito di seta nera era a righe, e così
pareva ancora più alta. (…) Il parrucchiere aveva fatto un pessimo lavoro.
L’uomo ci era andato giù pesante con lo schiarente, e adesso la testa era
troppo gialla. Niall non fiatò, ma Freada capì. “Ecco perché mi tocca tenere il
cappello.” “E cosa farai stasera” chiese Niall “Quando andremo a cena?” “Del
tulle” tagliò corto Freada. “me lo avvolgerò attorno alla testa, a Lady Wyndham
dirò che è l’ultima moda parigina”.
Durante
il viaggio, Papà tiene sulle ginocchia una mappa sterminata che non riporta
nessuna delle strade principali, ma in compenso riporta uno per uno i
sentierini più infimi della campagna di Coldhammer. Per le settanta miglia del
viaggio Papà non fa che contestare l’autista nella scelta del percorso, per
niente turbato dal fatto che la sua mappa risalga al diciottesimo secolo.
Agli
ospiti è stato chiesto di arrivare in tempo per il pranzo, all’una e un quarto;
ma per colpa della mappa del diciottesimo secolo, la comitiva giunge a
destinazione alle due passate.
L’automobile
compie un semicerchio e si ferma davanti all’ingresso principale. Ci sono un
po’ troppi cani, di tutte le razze. Papà esce dall’auto disseminando per terra
stuoie, cuscini, bastoni da passeggio, opere di Shakespeare, mentre i cani
abbaiano all’impazzata.
Mentre
Freada scende dall’auto, il tacco le rimane impigliato e cade lunga distesa ai
piedi del valletto incaricato di accogliere gli ospiti, con le braccia
spalancate come in un tuffo a volo d’angelo. “Notevole” dice Papà. “Vorrei un
bis”.
La
giornata trascorre tra imbarazzi di vario genere, con Lord Wyndham
costantemente impegnato a controllare l’ora, Papà che da un certo momento in
poi inizia ad aver bisogno di “uno stimolante” (è stata portata la fiaschetta
delle grandi emergenze, ma non si deve
intaccarla troppo presto), Niall che muore dalla voglia di fumarsi una
sigaretta in santa pace e Freada che non trova più la borsa da postino.
Quest’ultima dice:
“Ho
voglia di farmi un bagno. Ho una stanza da bagno incredibile, con uno scalino
accanto alla vasca.” (naturalmente ho pensato alla stanza da bagno della casa
di Fowey!) La donna spedisce Niall alla ricerca della sua borsa e nel frattempo
si concede un bagno; e il ragazzo trova il piccolo bagaglio, in un cantuccio,
accanto alle sacche di mazze da golf.
Freada
apre i rubinetti dell’acqua calda e fredda, facendoli scrosciare come fontane.
“La stanza da bagno di Freada era piena di vapore. Lei era in piedi nella vasca
e cantava a squarciagola, insaponandosi. Alla vista della borsa da postino
lanciò un urlo di trionfo”.
Nessuno
dei Delaney è puntuale, a cena. L’ultima ad entrare in sala da pranzo è Freada,
trattenuta a lungo dalle complicate operazioni di sistemazione del tulle
intorno alla testa. “L’effetto era un po’ sconcertante. Sembrava di essere
catapultati nell’antico Egitto. Lord Wyndham non appena lei arrivò tirò fuori
di scatto l’orologio. “Sono le otto, ventitrè minuti e trenta secondi” brontolò.”
Papà,
lievemente ubriaco per aver attinto alla fiaschetta delle grandi emergenze, non
trova di meglio da fare che comunicare al padrone di casa che il suo champagne
sa di tappo. Dopo cena, Niall percorre il corridoio verso la sua stanza e si
imbatte in Lady Wyndham che traffica con
due cameriere armate di secchi e strofinacci.
“Sua
madre ha lasciato aperti i rubinetti del bagno. L’acqua è traboccata e sta
piovendo nella biblioteca al piano di sotto.”
Niall
non riesce a dormire. Alle tre del mattino ode uno schianto in corridoio e si
affaccia alla porta. Nemmeno Papà riusciva a dormire, disturbato dall’orologio
che Lord Wyndham aveva piazzato sulle scale. Aveva tentato di fermarlo tirando
indietro a forza le lancette, e ora la lastra di cristallo giaceva in frantumi
ai suoi piedi.
Con
questa memorabile scena termina il capitolo 16, una inaspettata parentesi
comica e ironica nel corso di una narrazione che indaga complicati rapporti
familiari tra personaggi poco piacevoli con cui è difficile simpatizzare. Più
ci penso, più sembra un capitolo tratto da un altro romanzo, un divertissement
che l’autrice si è voluta concedere forse per smorzare la tensione accumulata
negli altri capitoli. O forse soltanto per riposarsi un po’.