All’Eremo di Montecastello (700 m a
picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale
con la filosofa Francesca Rigotti : “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni
di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa
diversa.
Nel
corso del nostro seminario, in cui la mitologia classica la fa da padrone e i
frequentissimi richiami della docente mi costringono a rapidi ripassi, a un certo
punto si cita Arianna, o meglio il suo paradosso; il filo di Arianna è il mezzo
grazie al quale Teseo riesce ad uscire dal labirinto, ma in che modo Teseo
ripaga il favore che Arianna gli ha reso? La pianta in asso… o, per essere
corretti, la pianta “in Nasso”, cioè l’abbandona sull’isola di Nasso. Il
comportamento di Teseo simboleggia l’appropriazione da parte dell’uomo di una
capacità tradizionalmente femminile, quella legata all’arte di intessere i
fili, relegata nell’ambito del concreto, del basso, del quotidiano, e
nobilitata dall’espropriazione maschile. Nonostante sia una donna che mette in
mano a Teseo il filo per uscire dal labirinto, filo che rappresenta il lògos,
alle donne – ed è questo il paradosso - è stata rifiutata per millenni la prerogativa
del pensiero logico.
Altra
donna maltrattata è Didone. Elissa, figlia del re di Tiro, detta Didone o
l’errabonda, ottiene dai Libi di avere stanza con i suoi su un terreno tanto
grande quanto l’area delimitata da una pelle bovina. E lei cosa fa? Tagliando
un’ampia pelle in sottilissime strisce, recinge un’altura che diviene la rocca
di Cartagine. Dire che Didone è astuta, è dire poco. Eppure per Enea, eroe
troiano spinto da una tempesta sulla riva africana e accolto dai cartaginesi,
perde completamente la testa. E quando lui l’abbandona per andare a perseguire
le solite imprese eroiche da uomo lei, che pure è Regina e potente, innalza un
grande rogo e si dà la morte tra le fiamme.
Il
richiamo a Arianna e Didone, inserito nel più ampio contesto della lezione, si
limita a un rapido accenno, ma il mio pensiero resta a lungo ancorato a queste
storie di abbandono e di dolore, e mi rendo subito conto che ciò accade perché
più che alla mitologia greca o alla storia narrata da Virgilio nell’Eneide in
me si risvegliano i ricordi di due delle più belle composizioni musicali
antiche che sia dato ascoltare: rispettivamente, il Lamento di Arianna e il Lamento
di Didone. Certo il lamento della donna abbandonata è un tòpos musicale archetipico quant’altri
mai, ma io non penso tanto alla storia della musica o a questioni di estetica, quanto
piuttosto all’impatto emotivo e coinvolgente di queste due somme composizioni.
Il Lamento d’Arianna è l’unica pagina che ci è rimasta dell’ opera Arianna
di Claudio Monteverdi, che l’ aveva composta nel 1608, dopo l’Orfeo.
Tutto il resto dell’opera è andato perduto.
Lasciatemi morire! canta la
povera Arianna, e la immaginiamo su uno scoglio mentre Teseo si allontana sulla
sua imbarcazione. Gli uomini, si sa, hanno sempre qualcosa di grande da fare,
qualcosa di importante e imponderabile che li costringe a una fuga perenne
verso un non ben precisato obiettivo strettamente imparentato col concetto di supremazia,
di gloria e di vittoria. E così, Arianna si lamenta, invocando la morte; e tale
momento evidentemente a Monteverdi piaceva assai, poiché, qualche anno dopo la
messa in scena dell’Arianna, lo musicò anche come madrigale a cinque
voci, inserito nel suo sesto libro di madrigali. Anche in questo secondo caso
si tratta di una magnifica composizione, forse meno commovente dell’aria
affidata alla voce sola, dato appunto il profilo polifonico del madrigale che
ne mitiga in parte l’impatto emozionale. Ma, anche in questo caso, che
meraviglia!
Il
Lamento di Didone chiude l’opera Dido and Aeneas di Henry
Purcell, composta nel 1689. Anche in questo caso, la protagonista si duole dell’essere
abbandonata dall’amato. Lo fa con parole e musica così struggenti da mettere a
dura prova la capacità di resistenza alla commozione di chiunque. Remember
me, canta Didone, but forget my fate. Ricordati di me, ma dimentica
il mio destino; giacché ha già preso la suprema decisione di uccidersi.
Enea,
proprio come l’altro fuggitivo, è chiamato ad altre e più importanti imprese;
nello specifico, sbarcare in Italia, combattere una quantità di battaglie e dar
vita alla discendenza di cui farà parte anche Romolo, fondatore di Roma. Inutile dire che niente e nessuno potrà ancora trattenerlo a Cartagine, nemmeno
Didone, per la quale, comunque, si era preso una bella sbandata.
E
così i nostri uomini se ne ripartono via mare, mentre le loro donne abbandonate
intonano musiche sublimi per esprimere il dolore per quell’addio subìto e non
voluto.
Sono
due uomini – Monteverdi e Purcell – a mettere in musica quei lamenti
interpretando al meglio, e con rara sensibilità, lo sconforto e l’angoscia che
da quegli abbandoni alle due donne deriva, riscattando così, almeno in parte,
la categoria dei maschi maltrattanti e perennemente in fuga.
Quanto
alle donne, Arianna si rifarà una vita, sposando nientemeno che Dioniso, dio
del vino e del delirio mistico, con il quale, se non altro, immaginiamo
trascorrerà delle belle serate alcoliche; Didone, invece, come già detto non
riesce a superare il trauma dell’abbandono, e si uccide.
La
loro voce, però, resta incastonata in due superlativi momenti musicali, che ce
le consegnano per l’eternità, ferme nella loro dolente immagine di abbandonate in
preda allo sconforto e che nello sconforto trovano i loro accenti migliori.
E
poiché la musica non va tanto raccontata, quanto ascoltata, ecco i due link ai Lamenti
che è sempre bene ascoltare, di quando in quando, per ricordarsi quanta
sublime e pura bellezza può esserci nella descrizione del dolore.