giovedì 27 agosto 2015

La camera azzurra - Georges Simenon

Di Simenon ho letto, come molti, i romanzi con protagonista Maigret raffigurandomi mentalmente il commissario parigino con il volto e le fattezze di Gino Cervi. Per motivi d'età non ho visto lo sceneggiato quando fu trasmesso in TV la prima volta, ma ho visto qualche replica e tante foto di scena. Credo che la triade Simenon – Maigret – Cervi sia ben radicata nell'immaginario collettivo di lettori e spettatori italiani di ogni età. Ma se devo essere sincera il Simenon migliore, o almeno quello che a me piace di più, mi sembra quello lontano da Maigret. Ho letto con grande piacere, negli anni scorsi, "La neve era sporca", "L'uomo che guardava passare i treni" e "Tre camere a Manhattan", romanzi senza il famoso commissario che ho trovato uno più bello dell'altro. Ma l'ultimo che ho letto, quest'estate, sotto l'ombrellone, mi ha proprio conquistata. Parlo de "La camera azzurra", pubblicato da Simenon nel 1964. Un romanzo in cui è presente l'elemento poliziesco e giallo, ma in cui sono altri gli aspetti più rilevanti. La storia, di per sé, non è originalissima, ma è proprio la costruzione narrativa che affascina e rende questo romanzo un vero capolavoro, tanto che è stato definito "quasi insopportabile per quanto è bello". La prima scena, ambientata nella camera azzurra del titolo, ci presenta i due protagonisti, gli amanti Antoine e Andreé, che si riposano dopo un pomeriggio di sfrenata passione. Una scena vivida, che immette subito al cuore della storia, con una descrizione precisa e efficace che lungi dal fermarsi all'aspetto esteriore di quanto tratteggiato introduce psicologia dei personaggi e importanti elementi che poi ritroveremo nel prosieguo della narrazione. La quale si sviluppa su livelli temporali diversi; al momento in cui il fatto si svolge si affiancano i successivi interrogatori attraverso i quali i protagonisti chiariscono i particolari della loro esistenza; parallelamente a tutto ciò, la ricostruzione del passato. Insomma un intreccio piuttosto complesso, ma condotto con una maestria tale che non si perde mai l'orientamento, tanto che, ripensandoci, sembra di ricordare una narrazione assolutamente lineare e convenzionale. Ma non è affatto così. La storia di Antoine, sposato con Gisele e padre della piccola Marianne, e di Andreé, moglie del malaticcio Nicolas, si svolge nel microcosmo piccolo borghese di Saint Justin du Loup, anonimo luogo della provincia francese, e la vicenda è classicamente incentrata sull'intreccio tra adulterio e delitti. Al di là del plot e della costruzione narrativa utilizzata, altra notevole caratteristica del romanzo
l'efficacia della descrizione dell'ambiente provinciale in cui il tutto si svolge e della psicologia dei personaggi, infelici e come imprigionati all'interno delle loro vite modeste e routinarie, cui solo la passione può portare un fremito di vitalità. Ma la passione e la vitalità possono essere travolgenti e pericolose... fino a diventare devastanti. Di tutte queste magistrali pagine alcuni elementi mi sono rimasti più impressi di altri. Ho trovato davvero ineguagliabile la capacità di Simenon di descrivere la vita familiare e domestica nella sua feroce ambivalenza, da una parte piatta e ripetitiva, e perciò esecrabile, ma dall'altra estremamente rassicurante, e quindi desiderabile, soprattutto nei momenti in cui si ha paura di qualcosa. Una descrizione che non ricorre a fiumi di parole o riflessioni o elucubrazioni, ma che si limita a tratteggiare situazioni, e a farlo con le parole giuste, poche e giuste. A un certo punto Antoine, spaventato per le possibili conseguenze della sua storia adulterina, nel cercare un rifugio sicuro ai propri malesseri se ne va in vacanza al mare con la famiglia, e si presta ai giochi della figlioletta lasciandosi tiranneggiare dalle sue continue richieste. "Non avrebbe saputo dire se lo facesse con la sensazione di compiere un dovere, per farsi perdonare una debolezza, per riscattare una colpa. Sapeva solo che quella passeggiata sotto il sole, accompagnata dalla vocetta di sua figlia, era dolce e malinconica al tempo stesso. Si sentiva felice e triste. Ma non a causa di Andreé né di Nicolas. Non ricordava di averci pensato. Felice e triste come la vita, così avrebbe voluto dire." Grande Simenon!        

giovedì 20 agosto 2015

Follia - di Patrick McGrath

Da tanto tempo volevo leggere questo libro. Lo ricordo appoggiato sul coperchio chiuso di un pianoforte verticale in casa di qualche amico, almeno quindici anni fa. Lo presi, scorsi velocemente la quarta di copertina, mi ripromisi di leggerlo. Poi rimandai, perchè stavo leggendo altro. Di rinvio in rinvio, di libro in libro, di anno in anno, finalmente quest'estate l'ho comprato e l'ho letto, con una aspettativa proporzionale al tempo trascorso da quella mia prima intenzione, e quindi, forse, un po' esagerata. La storia è nota. Siamo in Inghilterra, alla fine degli anni '50. Stella, moglie di Max Raphael, vicedirettore di un manicomio criminale, e madre di Charlie, descritta come una donna molto bella e sensuale, si innamora di un paziente recluso nell'istituto per aver ucciso (e decapitato) la moglie. Il sentimento è ricambiato e i due vivono una sorta di ossessione amorosa fino alle estreme conseguenze; lui scappa dall'istituto, lei lo segue, e per un periodo convivono in un sobborgo di Londra degradato e fatiscente. Edgar è un artista, uno scultore, che, lontano dal manicomio, cerca di riprendere la sua attività creativa plasmando una testa dell'amata, ma è anche un uomo ammalato, geloso e violento, che inizia a maltrattare e malmenare Stella, che si rifugia sempre più nell'acool. Le cose precipitano, i due vengono riacciuffati e ricondotti all'istituto, Stella deve seguire il marito che dopo lo scandalo viene trasferito a lavorare in un' altra struttura... nell'ultima parte del romanzo la vicenda vira decisamente al drammatico, come a sottolineare che la follia amorosa non può portare a nulla di buono se non al male e alla perdizione. La narrazione è condotta da Peter Cleave, psichiatra collega del Dr. Raphael, con il tono distaccato e freddo di chi ha dimestichezza più con le anamnesi e le diagnosi che con il racconto e l'analisi dei sentimenti. Tanti temi, tante suggestioni, tante riflessioni, che ruotano tutte attorno a un unico interrogativo, se l'amore possa - e debba - avere un senso o no.
La prima cosa cui questo romanzo mi ha fatto pensare è stata una frase di
Cesare Pavese tratta dal Mestiere di vivere: "Una donna che non sia una stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci riesce sempre." La frase a dire il vero non si adatta esattamente a quanto narrato in Follia, perchè Stella non è certo spinta verso Edgar dalla volontà di salvarlo né lo percepisce come un "rottame". Però - e la seconda parte della frase di Pavese va comunque declinata invertendo i sessi - in questo libro un uomo non stupido trova una donna sana e la riduce a rottame. In nome appunto di quell' amore che forse è solo una follia... Le domande di questo libro restano senza risposta, o piuttosto con l'unica risposta possibile che è il titolo del romanzo stesso (che nell'originale è "Asylum", manicomio): amore come passione obnubilante, come voragine irrazionale, come pazzia ingovernabile.
L'aspetto di questo romanzo meno convincente, per me, è stato il tono narrativo. Probabilmente con la volontà di rendere una narrazione che fosse quasi un resoconto, una cronaca, un referto medico, lo stile resta piuttosto algido dall'inizio alla fine, ci sono pochissimi dialoghi, la materia non sembra mai "partecipata" ma, appunto, "relazionata". La vicenda è appassionante e i personaggi interessanti, ma non li ho mai sentiti vivi né mi sono affezionata a loro, cosa che di solito mi succede. Da qui il mio giudizio ambivalente su questo libro, che ho letto volentieri, ma che non rileggerei.

mercoledì 5 agosto 2015

Shining, di Stephen King

Non avevo mai letto nulla di Stephen King, eccezion fatta per “On writing”, una sorta di autobiografia del mestiere, in cui lo scrittore americano parla dell’arte dello scrivere pur senza comporre un manuale di scrittura. Quel libro mi era piaciuto molto; stile piacevole, formula originale  - un po’ diario, un po’ confessione, un po’ chiacchierata – e poi tanti consigli utili sulla scrittura, semplici, diretti, veri, tipo: Se volete fare gli scrittori, ci sono due esercizi fondamentali: leggere molto e scrivere molto. Non conosco stratagemmi per aggirare questa realtà, non conosco scorciatoie. Però non avevo letto nemmeno un suo romanzo. Le sue tematiche non mi attraggono, l’horror non mi ha mai interessato né in letteratura né al cinema, il soprannaturale proprio non rientra tra le mie preferenze saldamente ancorate alla realtà delle cose, dei fatti e delle persone. Però mi sembrava brutto non aver letto nulla di un autore così prolifico e di successo, molto amato, tra l’altro, da mio fratello e da mio figlio… e così mi sono decisa, e ho scelto di leggere “Shining”. Sono sicura che la visione del film non la reggerei – i film di paura mi fanno, appunto, troppa paura – ma pensavo che la lettura del libro avrebbe potuto appassionarmi. Però devo ammettere che così non è stato. Non so perché, credo molto abbia a che vedere col fatto che la mia è una natura estremamente realista e se mi vengono a raccontare che uno ha le visioni e riesce a rivivere le cose del passato o a vedere quel che succederà nel futuro la cosa mi lascia indifferente; a pensarci bene, sono gli aspetti propriamente fantastici delle narrazioni che proprio non mi attirano, per esempio quando nei romanzi succede che i personaggi raccontino i loro sogni, in genere scorro velocemente il passo, o addirittura lo salto del tutto. E così non ho simpatizzato con questo bambino dotato di potere extrasensoriale, lo “shine”, così come l’intera vicenda dell’entità sinistra che possiede l’Overlook Hotel e che finisce per
sopraffare il suo guardiano invernale impadronendosi di lui e portandolo alla morte non mi ha poi molto appassionato; insomma ho letto questo libro con un po’ di fatica. Il fatto è che mentre leggevo non riuscivo a immaginarmi le visioni, i morti che tornano, le voci che riecheggiano nei corridoi, i cigolii sinistri, proprio perché il mio cervello è refrattario alla dimensione fantastica e quindi non riesce a elaborare scene irreali. Riconosco che il libro è scritto bene e dal punto di vista letterario è un prodotto che non fa una grinza. Ma io non ne sono rimasta colpita, non mi ha coinvolta. Quando ho finito l’ultima pagina e, come faccio solitamente al termine di una lettura, mi sono chiesta quale fosse, per me, il nucleo centrale del romanzo, il tema fondamentale, insomma il messaggio che il testo mi ha fatto arrivare, ho creduto di scorgerlo nella riflessione sull’immortale tema del rapporto padre-figlio. Nel romanzo le forze del male cercano di impossessarsi sia del padre  - e alla fine ci riescono – che del figlio – il piccolo Danny, di soli cinque anni; ma quest’ultimo, che teoricamente dovrebbe essere il soggetto più debole e quindi più facilmente conquistabile, riesce ad opporsi all’attacco delle “presenze” fronteggiando, nel drammatico finale, il proprio padre ormai posseduto, e riuscendo ad avere la meglio su di lui. Il quale morirà tra le fiamme dell’Overlook Hotel mentre Danny si metterà in salvo con la mamma. Per crescere bisogna uccidere il proprio padre, o farlo perire tra le fiamme, insomma inventarsi qualcosa per liberarsene... il tutto metaforicamente, s’intende…