venerdì 20 settembre 2013

L.A.Confidential



James Ellroy
L.A. Confidential

Alcune notazioni preliminari:
1) Faccio parte di un circolo di lettura dedicato a Jane Austen
2) I miei scrittori preferiti sono i grandi romanzieri russi dell’ottocento
3) Quest’inverno mi sono entusiasmata rileggendo Il piacere di D’Annunzio e Le affinità elettive di Goethe.
Facile dedurre da queste premesse come L.A.Confidential, a quanto pare uno dei migliori romanzi noir in circolazione, non rientri esattamente tra le mie letture consuete, anzi; non ho simpatia per la letteratura americana in generale, il noir non mi ha mai eccessivamente attratto e anche per la letteratura gialla d’intrattenimento trovo che un morto ammazzato a romanzo sia più che sufficiente (mentre nei noir abbondano, o almeno credo). Ho letto
L.A. Confidential perché da tempo stazionava in casa tra i libri da leggere e perché per la sua notevole mole mi sembrava adatto come lettura estiva, da ombrellone. L’approccio è stato difficile. Nella pagina iniziale un personaggio armato fino ai denti che si presenta sulla scena con dieci chili di eroina e diecimila dollari di dubbia provenienza viene brutalmente ammazzato non senza avere a sua volta trucidato almeno cinque o sei persone. La trama si snoda di morto in morto in un tripudio di schizzi di sangue, pedinamenti, turpiloquio, torture e violenze di vario tipo, inanellando una serie infinita di personaggi tra minori e maggiori il cui proliferare ha seriamente rischiato di farmi desistere dalla lettura, tanto ero confusa. Credo di aver resistito essenzialmente perché i protagonisti della storia sono poliziotti e la descrizione dell’agire della polizia americana negli anni cinquanta mi ha molto interessata, oltre che stupita. In questa storia la differenza tra poliziotti e criminali è davvero poca, per non dire nulla, e ci sono innumerevoli episodi che mi hanno fatto seriamente meditare sull’attendibilità di quanto viene narrato. I poliziotti sono corrotti, violenti, alcolizzati, drogati, frequentano prostitute, ammazzano e torturano esattamente come i criminali. Se vengono intentati processi o promosse azioni disciplinari nei confronti di un poliziotto che si è reso colpevole di qualche reato, spesso è perché un superiore gerarchico arrivista se non addirittura corrotto approfitta dell’occasione per far fuori chi può in qualche modo ostacolare la sua ascesa professionale. I poliziotti più che dall’ideale di garantire la giustizia sembrano animati dalla voglia di menare le mani contro chiunque turbi il loro concetto di equilibrio sociale e di ammazzare chi ha commesso qualche delitto particolarmente esecrabile.  
Perché uomini con queste propensioni hanno scelto di lavorare al servizio della legge? E’ stato solo un caso? E’ forse l’abitudine alla frequentazione di un certo mondo che finisce per facilitare, per osmosi, l’assimilazione di determinati comportamenti, in base al famoso detto chi pratica lo zoppo impara a zoppicare?  Certo, dobbiamo anche pensare al servizio di quale legge si sono posti questi individui. In una città violenta, in un’epoca violenta e in uno stato violento, in cui vige la pena di morte, non ci si può certo aspettare una mentalità garantista; resto comunque stupita dal fatto che un poliziotto che uccide tre evasi – imputati in attesa di processo, colti di sorpresa e disarmati – sia guardato come un eroe e venga addirittura promosso!  Questa è Los Angeles, baby, mi risponderebbe probabilmente Ellroy gettando a terra l’ultima cicca. E dunque non mi è rimasto che accantonare le sdegnate riserve
dettate dalla mia sensibilità - io così orgogliosa che la pena di morte sia stata abolita in Toscana fin dal 1786! – e portare in fondo le 500 pagine di questo noir, che, alla fine, mi ha, a suo modo, appassionata. Sono belli i tre personaggi protagonisti, poliziotti diversi per indole, storia e motivazioni, che si trovano a lavorare assieme alla risoluzione di un caso che se ne porta dietro almeno altri due, in una costruzione logica da giallo classico. E’notevole anche lo stile, così paratattico, sintetico, efficace. Avvincente la storia, al centro della quale sta il solito assassino seriale maniaco degenerato così ricorrente nell’immaginario dei narratori americani -  e si spera un po’ meno nella realtà.
Ci sono comunque varie cose che non mi sono piaciute, oltre alla violenza degli uomini di legge. Mi è spiaciuto un po’ che il mestiere in assoluto più ricorrente per le donne che compaiono nel romanzo sia quello di prostituta; e poi, che dalla storia non venga ricavato, in fondo, nessun messaggio positivo.
Ma, come forse mi direbbe Ellroy, questa è Los Angeles, baby…   

PRIMA FRASE:

21 febbraio 1950. Un motel abbandonato ai piedi delle colline di San Berdoo. Quando Buzz Meeks arrivò, aveva con sé novantaquattromila dollari, nove chili d’eroina pura, un fucile a pompa calibro 12, una 38 special, una 45 automatica e un coltello a serramanico.

ULTIMA FRASE:

Ed le baciò le guance. Lynn salì in auto, alzò i finestrini. Bud appoggiò una mano sul vetro. Ed vi appoggiò contro la sua dall’altra parte: il suo palmo era la metà. L’auto si mosse. E si mosse anche lui, di corsa, palmo contro palmo. Una svolta nel traffico, un colpetto di clacson di saluto.
Stelle d’oro. Solo con i suoi morti.

giovedì 5 settembre 2013

La maga delle spezie



Chitra Banerjee Divakaruni
LA MAGA DELLE SPEZIE

Tilo è una vecchia signora indiana che gestisce una bottega di spezie a Oakland, in California. Tilo è l’abbreviazione di Tilottama, da til, sesamo, che è il nome che ella stessa si è data; nata in uno sperduto villaggio indiano con il nome di Nayan Tara, segnata fin dalla nascita dal possesso di doti magiche e miracolose, ha passato una giovinezza avventurosa prima in compagnia dei pirati, poi in un’isola misteriosa dominata dall’Antica, o Prima Madre, una ineffabile creatura che trasforma le ragazze che si recano da lei in maghe delle spezie per poi inviarle nelle città del mondo a esercitare speciali arti magiche. Appresa dall’Antica l’arte di mettere a frutto i poteri delle spezie, Tilo si è gettata nel fuoco di Shampati e, trasformata in vecchia rugosa, si è risvegliata in America, a Oakland, all’interno del Bazar delle spezie, il suo magico regno. Qui Tilo vende la cannella per chi ha bisogno di essere preso per mano, seme di coriandolo per chi vuol vedere chiaro, trigonella contro la discordia, zenzero per infondere il coraggio necessario a dire no. Davanti al suo bancone si srotolano le storie di chi si è lasciato l’India alle spalle: Lalita, che avrebbe voluto fare la sarta ma che è obbligata a fare solo la moglie di Ahuja; Haroun, con le mani rovinate dal martello pneumatico e dal catrame, che vuol conoscere quale sarà la sua sorte; Jagiit, il bambino canzonato da tutti i compagni per la sua mitezza; il nonno di Geeta, arrabbiato con la nipote troppo americanizzata, che rifiuta l’offerta di matrimonio arrivata dall’India per fidanzarsi con Juan Cordero, un messicano. E poi Manu, Daksha, Vinod, Kwesi, tutte anime in pena che cercano di orientarsi nella vita e nel mondo, e cui Tilo consiglia le spezie più adatte alla loro ricerca. E lei, Maga potente ma un po’ribelle, cosa sta cercando? 
Le premesse di questo romanzo erano così buone… ma devo confessare che la sua lettura non mi ha affatto appassionata. Già l’inizio è piuttosto confuso, indulgendo la narrazione a uno stile puramente evocativo che lascia intuire gli snodi della trama più che descriverli; e questo, al di là di un mio personale scarso entusiasmo, può essere anche giusto, trattandosi comunque di una storia di ambientazione sostanzialmente fantastica. 

Poi, però, dopo che la nostra Maga è 
approdata in America, nelle pagine irrompe un deciso realismo, che alternandosi alla dimensione favolosa dovrebbe probabilmente suggerire il confronto tra realtà e magia, mondo terreno e sensibilità soprannaturali cui l’essenza stessa del personaggio della Maga allude. Ma il rapporto tra le due dimensioni non è reso in modo armonioso, e lo squilibrio pende talvolta da un lato, talvolta dall’altro, con il risultato che, se l’intento era quello di evidenziare quanto di magico c’è nella vita di tutti i giorni, lo scopo è del tutto fallito. I personaggi introdotti hanno destini più che prevedibili e le loro vicende vanno tutte a finire bene, ma questo è forse dovuto al fatto che l’uso delle spezie viene associato alla positività e quindi non ci si poteva certo aspettare che i rimedi della Maga non sortissero gli effetti sperati. Quanto alla protagonista del racconto, tutte le sue energie si concentrano sulla storia d’amore con un misterioso americano capitato nel suo negozio e rimasto ammaliato dal suo sguardo, unica sua caratteristica fisica interessante, dato che esternamente Tilo è una vecchia rugosa. Questo potrebbe essere un elemento originale e insolito, ma l’autrice trova il verso di banalizzare anche questo particolare, dato che la Maga si trasforma, giusto in tempo, in una donna fisicamente normale, non senza essersi tolta la soddisfazione di essere, per una notte almeno, assolutamente bellissima. Tra parentesi, anche del bell’americano, di cui viene puntigliosamente raccontata la storia dell’infanzia e del rapporto con la madre, non ho capito molto, non ho capito, cioè, se debba considerarsi una creatura soprannaturale o meno. Ma forse è un limite mio. La storia termina con un terremoto, lasciando dietro di sé più di un punto interrogativo. Tra l’altro, nella narrazione fa capolino anche la tematica del razzismo, ma è uno spunto che resta lì, irrisolto. Così come irrisolto resta per me questo romanzo.

PRIMA FRASE:
Io sono una Maga delle spezie.
ULTIMA FRASE:
“Andiamo”, dico a Raven e mano nella mano ci avviamo verso l’automobile.