VOLPE
VERSUS RICCIO, OVVERO L’ENIGMA DI TOLSTOJ
All’Eremo di Montecastello (700 m a
picco sul Lago di Garda) partecipo nel giugno 2012 a un seminario residenziale
con la filosofa Francesca Rigotti : “Creatività e minimi sistemi”. Tre giorni
di filosofia, di lago, di natura, di compagnia insolita, e di una me stessa
diversa.
“La
volpe conosce molte cose, il riccio una sola, ma grande.”
Sul
frammento dell’antico poeta greco Archiloco si basa un famoso testo di Isaiah
Berlin, che assume l’ immagine come metafora delle differenze che distinguono
gli individui e in base al quale, quasi fosse un gioco di società, Berlin
provvede a classificare scrittori e pensatori posizionandoli nell’una o
nell’altra grande famiglia di spiriti. I ricci riferiscono ogni cosa a una
visione centrale, a un sistema coerente governato da regole precise; sono, in
buona sostanza, monisti. Le volpi, al contrario, perseguono molti fini,
talvolta contraddittori, senza riferirsi ad un unico principio morale o estetico.
Il loro pensiero si muove su più piani e coglie una varietà di esperienze e di
temi senza che ci sia, alla base, una visione statica.
Come i ricci sono
monisti, così le volpi sono pluraliste. La tentazione monista poggia
sull’esigenza di superare la scissione attraverso la ricomposizione del tutto
in una totalità pacificata. La concezione del riccio si basa su due
convinzioni: primo, che il reale sia unitario e che riunisca in sé tutti i
fenomeni (scienza, metafisica, religione ecc.), secondo, che esista una
“situazione finale” in grado di conferire una unità a tutti i valori. Sono riconducibi
pertanto all’idea monista la teologia, il socialismo, il platonismo, certo
illuminismo. Le domande hanno una sola risposta, la strada per giungere alla
verità è una soltanto, e tutte le verità parziali concorrono a formare
un’unica, grande verità.
E il pluralismo della volpe, invece? La concezione è,
evidentemente, opposta:per la volpe non l’unità, ma la pluralità rappresenta
l’essenza del mondo, e non esiste situazione finale capace di garantire la
soluzione armonica di tutti i problemi e di tutti i conflitti valoriali.
Il
monismo è assai più diffuso del pluralismo, e mira alla ricerca di certezze
unitarie, in grado di garantire un fondamentale senso di sicurezza. Berlin
mette così in relazione monismo e agorafobia, ricerca filosofica dell’unità e
ricerca nevrotica di un luogo chiuso e rassicurante.
Il
pluralismo, al contrario, risulta spesso da una condizione di conformismo e
chiusura intellettuale che genera richieste di maggiori aperture e si traduce
in una rottura con le vecchie fedi e le
vecchie istituzioni.
Berlin
addebita al monismo dei ricci la responsabilità politica delle feroci dittature
che hanno caratterizzato il XX secolo; in particolare, l’assunto da cui esse
sono scaturite, tipico del monismo, è quello che possa esserci una soluzione
finale in grado di risolvere tutti i problemi. Berlin è convinto che il nostro
tempo non abbia bisogno né di fedi, né di certezze scientifiche, ma di un minor
grado di formalismo e di zelo messianico; secondo lui, quindi, i nostri tempi
hanno bisogno di scetticismo, sapientemente unito a una buona dose di
tolleranza. Berlin preferisce il perfido Talleyrand (sourtout pas trop de zèle) al virtuoso Robespierre, pericolosamente
duro e puro nella sua pretesa di uniformità.
Quanto
all’attribuzione all’uno o all’altro gruppo, secondo Berlin hanno agito da
ricci Dante, Platone, Lucrezio, Pascal, Hegel, Dostoevskij, Nietzsche, Ibsen,
Proust, mentre simili alle volpi sono stati Shakespeare, Erodoto, Aristotele,
Erasmo, Molière, Goethe, Puskin, Balzac, Joyce, Montaigne.
Il
caso più enigmatico risulta essere il mio amatissimo Tolstoj, che “era per
natura una volpe, ma credeva fermamente di essere un riccio”.
Secondo
Berlin, il dramma di Tolstoj consisterebbe nell’impossibilità di conciliare le
sue due diverse anime: quella appassionata del moralista che difende la libertà
dell’individuo, il suo impegno etico e civile, e quella distaccata del
fatalista che considera con freddo realismo la complessità del divenire
storico, le forze che in esso agiscono e lo dominano, secondo percorsi e leggi
che spesso limitano la libertà umana e travolgono e vanificano l’ingegno
dell’individuo. Tolstoj è quindi lacerato tra senso della realtà storica e
ideali morali, “il più grande tra coloro che non sanno né conciliare né
lasciare inconciliato il conflitto tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere”.
Berlin conclude con l’immagine a effetto di un Tolstoj che infine, come Edipo,
si acceca, per non vedere ciò che ormai sa, e per continuare a professare
quegli ideali morali di cui negli anni della vecchiaia diverrà il più radicale
e strenuo difensore.
Anche
noi partecipanti al seminario veniamo invitati a individuare la nostra
collocazione nell’una o nell’altra categoria: volpe o riccio? C’è chi si
dichiara irreparabilmente volpe, ma grande ammiratore del riccio, e viceversa.
Io non posso che considerarmi volpe; tutto in me – la mia storia, le mie
predilezioni passate e presenti, le mie abitudini – concorre a definirmi tale.
Ma francamente non credo di potermi dichiarare attratta o ammirata dall’essere
riccio, dalla sua capacità di ricondurre
ad un principio unico il senso della vita, della storia, delle cose. E’ un
criterio che decisamente non mi appartiene. Certo può essere invidiabile, in
quanto sicuramente è in grado di garantire, se professato con assoluta
convinzione, un senso impagabile di sicurezza e stabilità. Ma io lo percepisco
come soffocante e nonostante tutto mi sento di difendere una concezione più
dinamica, mutevole e flessibile della storia dell’uomo e del mondo, anche a
rischio di una maggiore vulnerabilità e debolezza. Viva le volpi, e viva
Tolstoj che di essere riccio “credeva” soltanto.
Isaiah Berlin, Il riccio e la volpe,
Adelphi, 1998