Tra
pochi giorni assisterò al Macbeth di Verdi nell’ambito della stagione del
Maggio Musicale Fiorentino. Lo mettono in scena alla Pergola, per ricordare che
qui fu presentato la prima volta, il 14 marzo 1847, con Giuseppe Verdi
trentaquattrenne sul podio. Protagonisti di quel memorabile debutto furono due
cantanti singolari, Felice Varesi, che col suo fisico tarchiato e un po’ sbilenco
sarebbe stato pochi anni dopo il primo Rigoletto, e Marianna Barbieri Nini,
soprano fiorentino, cantante temperamentosa di leggendaria bruttezza, preferita
da Verdi ad altre cantanti dalla voce armoniosa e risonante perché per la sua
Lady Macbeth lui voleva “una voce aspra, soffocata, cupa”. La tinta cupa
caratterizza tutta l’opera, gli unici squarci di colore sono rappresentati dal
rosso del sangue che si sparge sul percorso dei due malefici coniugi Macbeth
via via che si accumulano i cadaveri. E’ un’opera anomala, che non tratta dei
classici intrecci amorosi ma illustra la corsa ineluttabile e sanguinaria di
Macbeth e della moglie dietro la loro smania di potere; corsa che anziché al
potere li condurrà alla morte. Che, in senso ampio e filosofico, forse sono la stessa cosa…
Macbeth
mi piace moltissimo, è un’opera cui mi sono accostata da adulta, ascoltandola
al Maggio Musicale Fiorentino per la prima volta nel 1995, poi nel 2002, in
questa seconda occasione con la suggestiva regia di Marius Nekrosius. Ne possiedo
un’incisione della DECCA, direttore Riccardo Chailly, protagonisti Leo Nucci e
Shirley Verret; si tratta in realtà della “colonna sonora” di un film del regista francese Claude D’Anna, un
film vero e proprio, non la ripresa teatrale di uno spettacolo, ed è tale la
mia devozione a questa incisione, e soprattutto alla impareggiabile interpretazione
della Verret, che ho acquistato anche il dvd del film. Una pellicola angosciante,
scura dall’inizio alla fine, con le streghe – che, com’è noto, con i loro
vaticini sono il motore del dramma - rappresentate come creature immonde, a
metà tra esseri umani e bestie, in una Scozia dell’anno mille desolata e assai
poco attraente. La rappresentazione del banchetto in onore di Macbeth, appena
asceso al trono regio – che immagineremmo fastosa, condizionati come siamo
dalle sontuose messe in scena teatrali – nel film è ambientata in una sala del
palazzo che pare uno scantinato, con un manipolo di invitati uno più brutto
dell’altro, dalle facce e dai vestiti grigiastri, senza alcuna traccia del lusso e del fasto
che siamo soliti associare alla nostra moderna idea di ambiente di potere. Una
descrizione realistica, insomma, diametralmente opposta ad altre scelte
registiche che invece optano per un linguaggio più in linea con le convenzioni
del teatro d’opera (penso alla regia di Liliana Cavani per un Macbeth di
qualche anno fa al Regio di Parma, in cui si effettuava una trasposizione della
vicenda in epoca elisabettiana, contemporanea cioè a Shakespeare; ed ecco i
personaggi indossare grandi e candide gorgiere inamidate, e la scena del
banchetto - chiara e brillante - con dame e cavalieri che intrecciano danze
sfoggiando accurate e bellissime mise
secentesche.)
La
regia del Macbeth di Nekrosius vista al Comunale anni fa, fortemente
simbolica, era caratterizzata da scelte
minimaliste, con pochi elementi in una scena di due soli colori: bianco e nero.
Il palco era tagliato a metà da una strada, simbolo del destino dei due
protagonisti. E le streghe erano donne scattanti e belle, dotate di
capigliature lunghissime che facevano voluttuosamente volteggiare ad ogni loro
apparizione.
Non
ricordo le interpreti dei Macbeth fiorentini cui ho assistito; la “mia” Lady
resta la Verret, diretta musicalmente da Chailly e registicamente da D’Anna.
Trovo irresistibile la sua scena d’ingresso: Lady legge la lettera in cui il marito
le annuncia che le streghe gli hanno vaticinato il trono, quindi si rivolge
idealmente a Macbeth incitandolo ad affrettarsi a cogliere la sua grande
occasione e finisce per invocare gli spiriti del male perché sostengano il
consorte a non indietreggiare davanti a nulla, omicidio compreso. Nel film di
D’Anna la Verrett, con i capelli tirati indietro a scoprirne il viso angoloso,
nero e bellissimo, grandi pendenti alle orecchie, un sontuoso mantello argenteo
bordato di pelliccia a coprire il corpo imponente, legge la lettera e canta la
sua cavatina scendendo nelle segrete del castello, dove alcune emaciate figure
di prigionieri si affacciano dalle sbarre per ascoltare il suo febbricitante
canto malvagio; simbolica discesa agli inferi e nei recessi più profondi del
male.
Così
come impareggiabile trovo la scena del “sonnambulismo”, cui sappiamo che Verdi
teneva in modo particolare, attribuendo alla sua riuscita il successo o meno di
tutta l’opera. Lady Macbeth soltanto nel sonno, e quindi in una condizione di
incoscienza, cede di fronte alla consapevolezza dei suoi crimini, rivedendo
ossessivamente i delitti perpetrati assieme al marito; la Verrett si aggira per
il suo funereo palazzo con una specie di tonaca grigia, struccata, disadorna,
torcendosi le mani che nel suo delirio vede ancora imbrattate di sangue. Mani
bellissime, dalle dita affusolate e regali, con unghie lunghe che non possono
che rammentare artigli rapaci. Lady Macbeth è travolta e infine uccisa dalla
pur incosciente consapevolezza dei propri misfatti. Ma consapevolmente resta
perfida fino all’ultimo, coerente con la malvagità innata del suo animo. Non
così Macbeth, che fin dall’inizio appare ambizioso ma esitante, smanioso di
affermarsi ma timoroso, e che mostra subito di non poter reggere psicologicamente
l’enorme peso dei delitti commessi; ha visioni e allucinazioni, è ossessionato
dai fantasmi evocati dalle streghe, si sente costantemente minacciato. Pur
cattivo, è un debole.
E
grazie a questa sua certa forma di “sensibilità”, Macbeth ci regala, nel testo
di Shakespeare, una pagina di inarrivabile pessimismo nichilista.
Gli
annunciano che la regina è morta. Ecco il suo commento:
“Via,
consumati, corta candela!
La
vita è soltanto un’ombra errante,
un
guitto che in scena
s’agita
un’ora pavoneggiandosi, e poi
tace
per sempre: una storia narrata
da
un idiota, colma di suoni e di furia,
senza
significato.”
Che
nell’opera verdiana così viene reso dall’abile librettista Piave:
“La
vita, che importa?
E’
il racconto di un povero idiota
Vento
e suono che nulla dinota.”
Come
non pensare a un passo di una lettera scritta da Giuseppe Verdi a Clara Maffei
nel 1883:
“Gli
anni cominciano proprio ad essere troppi e penso… penso che la vita è la cosa
più stupida, e quello che è ancor peggio, inutile! Cosa si fa? Cosa abbiam
fatto? Cosa faremo? Stringendo ben tutto la risposta è una… umiliante…
tristissima: NULLA!”
Insomma
in questi animi maschili si agita il fantasma del dubbio, dell’incertezza,
della crisi; non così nell’animo della ferrea Lady, che, pur rivedendo nel
sonno il susseguirsi dei suoi misfatti, sembra rammaricarsi soltanto di non
riuscire a pulirsi le mani, esponendosi così al rischio di essere scoperta! E
chissà che non sia proprio la paura di non sfangarla a tenere a bada i nostri
istinti peggiori, più di qualunque principio morale? Cosa faremmo se avessimo
la certezza dell’impunità? E’ questo il dubbio atroce che la storia dei due
coniugi criminali evoca potentemente in noi, rinnovando ogni volta il desiderio
di sentirla narrare da capo? Chi ha paura di Lady Macbeth?