mercoledì 19 giugno 2013

Chi ha paura di Lady Macbeth?



Tra pochi giorni assisterò al Macbeth di Verdi nell’ambito della stagione del Maggio Musicale Fiorentino. Lo mettono in scena alla Pergola, per ricordare che qui fu presentato la prima volta, il 14 marzo 1847, con Giuseppe Verdi trentaquattrenne sul podio. Protagonisti di quel memorabile debutto furono due cantanti singolari, Felice Varesi, che col suo fisico tarchiato e un po’ sbilenco sarebbe stato pochi anni dopo il primo Rigoletto, e Marianna Barbieri Nini, soprano fiorentino, cantante temperamentosa di leggendaria bruttezza, preferita da Verdi ad altre cantanti dalla voce armoniosa e risonante perché per la sua Lady Macbeth lui voleva “una voce aspra, soffocata, cupa”. La tinta cupa caratterizza tutta l’opera, gli unici squarci di colore sono rappresentati dal rosso del sangue che si sparge sul percorso dei due malefici coniugi Macbeth via via che si accumulano i cadaveri. E’ un’opera anomala, che non tratta dei classici intrecci amorosi ma illustra la corsa ineluttabile e sanguinaria di Macbeth e della moglie dietro la loro smania di potere; corsa che anziché al potere li condurrà alla morte. Che, in senso ampio e filosofico, forse sono la stessa cosa
Macbeth mi piace moltissimo, è un’opera cui mi sono accostata da adulta, ascoltandola al Maggio Musicale Fiorentino per la prima volta nel 1995, poi nel 2002, in questa seconda occasione con la suggestiva regia di Marius Nekrosius. Ne possiedo un’incisione della DECCA, direttore Riccardo Chailly, protagonisti Leo Nucci e Shirley Verret; si tratta in realtà della “colonna sonora” di  un film del regista francese Claude D’Anna, un film vero e proprio, non la ripresa teatrale di uno spettacolo, ed è tale la mia devozione a questa incisione, e soprattutto alla impareggiabile interpretazione della Verret, che ho acquistato anche il dvd del film. Una pellicola angosciante, scura dall’inizio alla fine, con le streghe – che, com’è noto, con i loro vaticini sono il motore del dramma - rappresentate come creature immonde, a metà tra esseri umani e bestie, in una Scozia dell’anno mille desolata e assai poco attraente. La rappresentazione del banchetto in onore di Macbeth, appena asceso al trono regio – che immagineremmo fastosa, condizionati come siamo dalle sontuose messe in scena teatrali – nel film è ambientata in una sala del palazzo che pare uno scantinato, con un manipolo di invitati uno più brutto dell’altro, dalle facce e dai vestiti grigiastri,  senza alcuna traccia del lusso e del fasto che siamo soliti associare alla nostra moderna idea di ambiente di potere. Una descrizione realistica, insomma, diametralmente opposta ad altre scelte registiche che invece optano per un linguaggio più in linea con le convenzioni del teatro d’opera (penso alla regia di Liliana Cavani per un Macbeth di qualche anno fa al Regio di Parma, in cui si effettuava una trasposizione della vicenda in epoca elisabettiana, contemporanea cioè a Shakespeare; ed ecco i personaggi indossare grandi e candide gorgiere inamidate, e la scena del banchetto  - chiara e brillante  - con dame e cavalieri che intrecciano danze sfoggiando accurate e bellissime mise secentesche.)

La regia del Macbeth di Nekrosius vista al Comunale anni fa, fortemente simbolica,  era caratterizzata da scelte minimaliste, con pochi elementi in una scena di due soli colori: bianco e nero. Il palco era tagliato a metà da una strada, simbolo del destino dei due protagonisti. E le streghe erano donne scattanti e belle, dotate di capigliature lunghissime che facevano voluttuosamente volteggiare ad ogni loro apparizione.
Non ricordo le interpreti dei Macbeth fiorentini cui ho assistito; la “mia” Lady resta la Verret, diretta musicalmente da Chailly e registicamente da D’Anna. Trovo irresistibile la sua scena d’ingresso: Lady legge la lettera in cui il marito le annuncia che le streghe gli hanno vaticinato il trono, quindi si rivolge idealmente a Macbeth incitandolo ad affrettarsi a cogliere la sua grande occasione e finisce per invocare gli spiriti del male perché sostengano il consorte a non indietreggiare davanti a nulla, omicidio compreso. Nel film di D’Anna la Verrett, con i capelli tirati indietro a scoprirne il viso angoloso, nero e bellissimo, grandi pendenti alle orecchie, un sontuoso mantello argenteo bordato di pelliccia a coprire il corpo imponente, legge la lettera e canta la sua cavatina scendendo nelle segrete del castello, dove alcune emaciate figure di prigionieri si affacciano dalle sbarre per ascoltare il suo febbricitante canto malvagio; simbolica discesa agli inferi e nei recessi più profondi del male.
Così come impareggiabile trovo la scena del “sonnambulismo”, cui sappiamo che Verdi teneva in modo particolare, attribuendo alla sua riuscita il successo o meno di tutta l’opera. Lady Macbeth soltanto nel sonno, e quindi in una condizione di incoscienza, cede di fronte alla consapevolezza dei suoi crimini, rivedendo ossessivamente i delitti perpetrati assieme al marito; la Verrett si aggira per il suo funereo palazzo con una specie di tonaca grigia, struccata, disadorna, torcendosi le mani che nel suo delirio vede ancora imbrattate di sangue. Mani bellissime, dalle dita affusolate e regali, con unghie lunghe che non possono che rammentare artigli rapaci. Lady Macbeth è travolta e infine uccisa dalla pur incosciente consapevolezza dei propri misfatti. Ma consapevolmente resta perfida fino all’ultimo, coerente con la malvagità innata del suo animo. Non così Macbeth, che fin dall’inizio appare ambizioso ma esitante, smanioso di affermarsi ma timoroso, e che mostra subito di non poter reggere psicologicamente l’enorme peso dei delitti commessi; ha visioni e allucinazioni, è ossessionato dai fantasmi evocati dalle streghe, si sente costantemente minacciato. Pur cattivo, è un debole.
E grazie a questa sua certa forma di “sensibilità”, Macbeth ci regala, nel testo di Shakespeare, una pagina di inarrivabile pessimismo nichilista.
Gli annunciano che la regina è morta. Ecco il suo commento:
“Via, consumati, corta candela!
La vita è soltanto un’ombra errante,
un guitto che in scena
s’agita un’ora pavoneggiandosi, e poi
tace per sempre: una storia narrata
da un idiota, colma di suoni e di furia,
senza significato.”
Che nell’opera verdiana così viene reso dall’abile librettista Piave:
“La vita, che importa?
E’ il racconto di un povero idiota
Vento e suono che nulla dinota.”
Come non pensare a un passo di una lettera scritta da Giuseppe Verdi a Clara Maffei nel 1883:
“Gli anni cominciano proprio ad essere troppi e penso… penso che la vita è la cosa più stupida, e quello che è ancor peggio, inutile! Cosa si fa? Cosa abbiam fatto? Cosa faremo? Stringendo ben tutto la risposta è una… umiliante… tristissima: NULLA!”
Insomma in questi animi maschili si agita il fantasma del dubbio, dell’incertezza, della crisi; non così nell’animo della ferrea Lady, che, pur rivedendo nel sonno il susseguirsi dei suoi misfatti, sembra rammaricarsi soltanto di non riuscire a pulirsi le mani, esponendosi così al rischio di essere scoperta! E chissà che non sia proprio la paura di non sfangarla a tenere a bada i nostri istinti peggiori, più di qualunque principio morale? Cosa faremmo se avessimo la certezza dell’impunità? E’ questo il dubbio atroce che la storia dei due coniugi criminali evoca potentemente in noi, rinnovando ogni volta il desiderio di sentirla narrare da capo? Chi ha paura di Lady Macbeth?  






domenica 2 giugno 2013

Lettori in viaggio / 10



13 dicembre 2011
LA MONOCOLA E IL FREQUENTATORE DI BIBLIOTECHE

Treno per Firenze delle 7.22
Un treno che viene da Siena, stracolmo di studenti che escono a decine e decine, sembrano non finire mai.
Salgo e trovo subito da sedere. Di fronte  a me, una donna sui tentacinque, con i capelli castano/ramati, lisci, lunghi, con un ciuffo sulla fronte così compatto che le copre completamente l’occhio sinistro. Ha un naso importante, niente trucco, vistose borse sotto gli occhi, o almeno sotto l’occhio visibile, che pare verde chiaro.  Ha un corto giubbetto di pelle con un bel collo di pelliccia, pantaloni sportivi color fango, stivaletti. Legge “L’educazione delle fanciulle”, di Franca Valeri e Luciana Littizzetto; sul retro di copertina vedo che ci sono vistosi adesivi con codici a barre, tipici dei libri acquistati a sconto al supermercato. All’altezza di Montelupo chiude il libro, lo infila in borsa e si mette a smanettare sul cellulare.
Accanto a me, un signore distinto sui cinquantacinque, capelli radi e fini castano chiaro, occhi azzurri, occhiali appesi al collo con una cordicella, un bel vestito di tessuto operato che forma minuscoli quadrettini bianchi e grigio/verdi, sotto una camicia azzurro chiaro, cravatta blu, belle scarpe marroni. Legge un libro dalla copertina di un rosso squillante, ha infilato tra le pagine a mò di segnalibro una striscia di cartoncino su cui sta scritto Biblioteca Vallesiana.
Anche lui più o meno a Montelupo smette di leggere, si mette il libro in grembo (“Ratti rossi”, Xiaolong Qiu) , appoggia la testa e dorme. 

22 dicembre 2011
PRECIPITOSA RICERCA DELLA FELICITA’

Treno da Firenze delle 16.28
Una volta partiti, dato che accanto a me non c’è nessuno, appoggio sul sedile vicino al mio borsa e portacomputer. A Rifredi una ragazza appena salita mi fa: “Posso?” e non appena libero il posto si siede precipitosa, quasi gettandosi. Indossa un piumino imbottito lungo color verde, con il cappuccio contornato di pelliccia, anch’essa verde. La sbircio di profilo, ha i capelli corti e lisci sul castano/rossiccio, porta occhiali dalla montatura verde. Estrae da una borsa un libro, un volumetto sottile, piegato su se stesso: “Felicità in questo mondo. Un percorso alla scoperta del buddismo e della Soka Gakkai”. Si mette a leggerlo scorrendo le righe con il dito, ha le unghie curate, laccate di smalto trasparente. Quando il treno arriva a Lastra a Signa, non più di dieci minuti da quando è salita, alza la testa dal libro e si accorge che è la sua fermata, scatta su e si precipita all’uscita.  

23 dicembre 2011
LA GIOVANE CONTADINA RUSSA

Treno da Firenze delle 18.10 
Di fronte a me una donna giovane, ma non giovanissima, fuori moda, fuori tempo; robusta, faccia larga, tonda, assolutamente priva di trucco, naso a patata, labbra sottili, capelli castani corti con ciuffo fermato di lato da una molletta; un maglione marrone a collo alto, pantaloni neri di velluto sciupacchiati e lisi sui ginocchi, scarpe da ginnastica nere un po’ infangate. Il maglione è ampio, ha dovuto arrotolare le maniche troppo lunghe; al polso sinistro, un orologio swatch nero; all’anulare la fede. Sembra una giovane e robusta contadina russa. Sulle ginocchia tiene ben aperto un libro voluminoso, dalla copertina cartonata, con la sovraccoperta dai tenui colori pastello. “Ho un castello nel cuore”, di Dodie Smith. Legge composta, senza muoversi. Le suona il cellulare, risponde in italiano, ma con un forte accento slavo. “Arrivo tra dieci minuti”.