Da tanto tempo volevo
leggere questo libro. Lo ricordo appoggiato sul coperchio chiuso di
un pianoforte verticale in casa di qualche amico, almeno quindici
anni fa. Lo presi, scorsi velocemente la quarta di copertina, mi
ripromisi di leggerlo. Poi rimandai, perchè stavo leggendo altro. Di
rinvio in rinvio, di libro in libro, di anno in anno, finalmente
quest'estate l'ho comprato e l'ho letto, con una aspettativa
proporzionale al tempo trascorso da quella mia prima intenzione, e
quindi, forse, un po' esagerata. La storia è nota. Siamo in
Inghilterra, alla fine degli anni '50. Stella, moglie di Max Raphael,
vicedirettore di un manicomio criminale, e madre di Charlie,
descritta come una donna molto bella e sensuale, si innamora di un
paziente recluso nell'istituto per aver ucciso (e decapitato) la
moglie. Il sentimento è ricambiato e i due vivono una sorta di
ossessione amorosa fino alle estreme conseguenze; lui scappa
dall'istituto, lei lo segue, e per un periodo convivono in un
sobborgo di Londra degradato e fatiscente. Edgar è un artista, uno
scultore, che, lontano dal manicomio, cerca di riprendere la sua
attività creativa plasmando una testa dell'amata, ma è anche un
uomo ammalato, geloso e violento, che inizia a maltrattare e
malmenare Stella, che si rifugia sempre più nell'acool. Le cose
precipitano, i due vengono riacciuffati e ricondotti all'istituto,
Stella deve seguire il marito che dopo lo scandalo viene trasferito a
lavorare in un' altra struttura... nell'ultima parte del romanzo la
vicenda vira decisamente al drammatico, come a sottolineare che la
follia amorosa non può portare a nulla di buono se non al male e
alla perdizione. La narrazione è condotta da Peter Cleave,
psichiatra collega del Dr. Raphael, con il tono distaccato e freddo
di chi ha dimestichezza più con le anamnesi e le diagnosi che con il
racconto e l'analisi dei sentimenti. Tanti temi, tante suggestioni,
tante riflessioni, che ruotano tutte attorno a un unico
interrogativo, se l'amore possa - e debba - avere un senso o no.
La prima cosa cui questo
romanzo mi ha fatto pensare è stata una frase di
Cesare Pavese
tratta dal Mestiere di vivere: "Una donna che non sia una
stupida, presto o tardi, incontra un rottame umano e si prova a
salvarlo. Qualche volta ci riesce. Ma una donna che non sia una
stupida, presto o tardi trova un uomo sano e lo riduce a rottame. Ci
riesce sempre." La frase a dire il vero non si adatta
esattamente a quanto narrato in Follia, perchè Stella non è certo
spinta verso Edgar dalla volontà di salvarlo né lo percepisce come
un "rottame". Però - e la seconda parte della frase di
Pavese va comunque declinata invertendo i sessi - in questo libro un
uomo non stupido trova una donna sana e la riduce a rottame. In nome
appunto di quell' amore che forse è solo una follia... Le domande di
questo libro restano senza risposta, o piuttosto con l'unica risposta
possibile che è il titolo del romanzo stesso (che nell'originale è
"Asylum", manicomio): amore come passione obnubilante, come
voragine irrazionale, come pazzia ingovernabile.
L'aspetto di questo
romanzo meno convincente, per me, è stato il tono narrativo.
Probabilmente con la volontà di rendere una narrazione che fosse
quasi un resoconto, una cronaca, un referto medico, lo stile resta
piuttosto algido dall'inizio alla fine, ci sono pochissimi dialoghi,
la materia non sembra mai "partecipata" ma, appunto,
"relazionata". La vicenda è appassionante e i personaggi
interessanti, ma non li ho mai sentiti vivi né mi sono affezionata a
loro, cosa che di solito mi succede. Da qui il mio giudizio
ambivalente su questo libro, che ho letto volentieri, ma che non
rileggerei.
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