Soltanto
in tempi molto recenti mi sono rassegnata all’evidenza che, oltre alla
prediletta Turandot, il mio cuore di melomane batte per un’altra opera,
peraltro sempre di Puccini: Madama Butterfly. Non a caso ho parlato di cuore,
mettendo subito in evidenza la diversa origine delle mie predilezioni, dettate
da motivazioni razionali per quanto riguarda la Principessa di gelo,
da impulsi totalmente sentimentali in riferimento alla piccola geisha di
Nagasaki.
Madama
Butterfly non mi ha folgorato, non mi è piaciuta subito. Conosciuta fin da
quando ero ragazzina per le arie famose, che spesso vengono eseguite nei concerti, ascoltata abbastanza
distrattamente in una incisione in vinile che possiedo ancora, protagonisti la Tebaldi e Bergonzi, sono
stata costretta a conoscerla approfonditamente soltanto nei primi anni duemila,
quando ho dovuto studiare la parte del coro e partecipare alla sua messa in
scena. Da allora, rappresentazione dopo rappresentazione, ascolto dopo ascolto,
pianto dopo pianto, quest’opera ha lentamente conquistato un posto di primo
piano tra quelle che prediligo e quando, poco tempo fa, nel prepararmi a una
breve trasferta mi sono chiesta quale opera dovessi portare con me per
ascoltarla in viaggio, dopo aver passato
in rassegna più e più volte tutta la mia discoteca mi sono accorta che la
scelta tornava a cadere puntualmente lì, sulla Madama Butterfly. Perché è un’
opera che ho sempre voglia di ascoltare, in qualunque momento, di qualunque umore
io sia. E perché, in un certo senso, alla piccola geisha di Nagasaki voglio
bene.
Queste
considerazioni mi hanno colta di sorpresa e mi sono chiesta il perché di questo
amore per un personaggio totalmente diverso dalla mia eroina operistica da
sempre preferita, Turandot. Cosa c’entra questa ragazzina giapponese trepidante
e ingenua, e pure ignorante dato che non sa nemmeno cosa significa
“ornitologia”, con la Principessa di gelo
che tiene in pugno una nazione intera e manda a morte un pretendente dietro
l’altro? Cio-cio-san è piuttosto simile a tutte quelle eroine dell’opera che
come personaggi mi piacciono poco o punto, perse come sono dietro amori più o
meno impossibili e che per l’uomo amato finiscono quasi sempre per morire.
Eppure.
Certo
in primo luogo l’attrazione è determinata dalla musica pucciniana, struggente e
malinconica come non mai, e che in quest’opera ha momenti particolarmente
felici; l’aria d’ ingresso di Butterfly con il coro delle amiche, il duetto
d’amore del primo atto, il “duetto dei fiori” alla fine del secondo, e tutto il
terzo atto, a partire dal toccante preludio strumentale per proseguire fino allo straziante “Tu, tu
piccolo Iddio”, per il quale ad ogni ascolto verso tutte, ma proprio tutte le
mie lacrime. Ma pur passando in rassegna
i momenti musicali, mi accorgo che il mio legame con quest’opera risiede in
qualche altra suggestione e mi ci è voluto un po’ per mettere a fuoco i termini
della faccenda. Che alla fine mi si è rivelata in tutta la sua verità. C’è una
tematica che permea di sé quest’ opera, da cima a fondo, e costituisce anche
l’essenza stessa del personaggio di Butterfly, una tematica che evidentemente
mi risuona nell’anima e che veicolata in modo mirabile dalla musica pucciniana
mi fa palpitare di commozione e di empatia per la protagonista della
storia. Questa tematica è l’attesa. Cio-cio-san
è una giovane donna che aspetta. Aspetta il ritorno dell’uomo di cui è
innamorata, aspetta che il destino tenga fede alla sua promessa di felicità e
lo riporti da lei, e in quest’attesa tutto il resto è sospeso, la sua vita non
ha altro scopo che questo, quello di attendere. E mentre Butterfly aspetta il
ritorno dell’amato, anche noi, come lei, aspettiamo qualcosa, piccola o grande
che sia; che passi un brutto periodo, che qualcuno che ci è caro guarisca, che
finisca la scuola, che la nostra vita abbia finalmente una svolta, che un amico
con cui abbiamo litigato torni a sorriderci, che arrivi l’estate, che la
giovinezza duri per sempre, oppure che sopraggiunga finalmente la vecchiaia. E
quest’attesa assorbe le nostre energie, tutte orientate a nutrire la speranza
che il nostro desiderio si realizzi, e proprio come Butterfly ci ostiniamo a
scrutare l’orizzonte, impazienti di vedere quel fil di fumo che ci annuncerà la
fine del nostro stato di ansiosa sospensione. Un’attesa fiduciosa, spavalda
quasi, che ci porta a trattare con sufficienza - se non con sprezzo - quanti
cerchino di ricondurci a un sano realismo, in grado di proteggerci dalla possibile
delusione: “Tienti la tua paura, io, con sicura fede, l’aspetto!” canta
speranzosa Butterfly rintuzzando i timori di Suzuki. E quell’acuto, quel si
bemolle su cui termina “l’aspetto”, è lo slancio ottimista con cui ciascuno di
noi cerca di ipotecare il futuro. “Un bel dì vedremo” tratteggia con minuzia di
particolari il tanto agognato ritorno di Pinkerton, è lo strappo in avanti di
Cio-cio-san, così come il primo atto dell’opera, più che l’inizio della storia,
mi è sempre sembrata una sorta di flash-back, il riandare ossessivo della geisha
ai ricordi di quella memorabile giornata, del primo incontro, della prima notte
di nozze, ripercorsi con maniacale precisione, con l’attardarsi su dettagli
quasi inutili e un po’ noiosi, tutti i piccoli accadimenti della giornata,
passo dopo passo, l’incontro con Lui, e poi l’arrivo dei parenti, i gesti
compiuti durante la cerimonia, quel che ha detto tizio e quel che ha detto
caio, via via fino all’ irrompere sulla scena dello zio Bonzo, ti ricordi com’è
stato terribile, eh sì davvero un brutto momento, mi hanno rinnegata, e Lui, Pinkerton,
mio marito, lui ha saputo consolarmi, mi ha detto “ i bonzi tutti del Giappone
non valgono il pianto di quegli occhi cari e belli”…
L’attesa
di Butterfly dura tre anni… alterna momenti di sconforto e di ottimismo, finché
gli eventi registrano la contrazione finale e sembra proprio che il sogno della
geisha stia per realizzarsi; dal momento in cui ella scorge la nave da guerra
che attracca nel porto, l’ inquietudine imbocca il suo ultimo tratto e diventa
uno spasmo ingovernabile, che ella cerca di domare cogliendo tutti i fiori del
giardino per adornare e profumare la casa che accoglierà l’uomo tanto atteso.
Ma la smania è talmente forte che non ci sono gesti o parole che possano
addomesticarla, e gli spasmi della lunga ultima notte di attesa si
concretizzano nel mormorio di un coro a bocca chiusa, esemplificazione dello
stadio estremo della tensione emotiva che non trova modo di esprimersi se non
attraverso un malinconico mugolìo.
L’attesa
di Butterfly si rivela del tutto inutile. Per quanto Pinkerton abbia fatto
ritorno a Nagasaki e si sia persino recato nella casetta che aveva occupato in
occasione del suo matrimonio giapponese, Butterfly neppure lo incontra. Saputo
per certo che la felicità le sarà negata, ella si uccide; e con lei muoiono
anche le nostre aspettative non soddisfatte, le speranze deluse, i sogni
mancati.
E
l’unica consolazione resta quella di riandare con la memoria ai particolari del
nostro sogno bello, nonché riascoltare all’infinito la musica che più di ogni
altra sa esprimere lo stato sospeso dell’anima che attende.
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