Non
ho mai avuto dubbi nell’indicare in Turandot la mia opera preferita. Fin dai
primi ascolti, da ragazzina, in una incisione in vinile che circolava per casa
– con la Callas
– o in un VHS che aveva per protagonista l’impressionante Dimitrova – la
principessa di gelo mi conquistò. Quando poi l’ascoltai dal vivo, per la prima
volta, nell’estate del 1988, a Torre del Lago, protagonista Olivia Stapp, fu
siglato un patto d’amore imperituro tra me e la divina principessa. E si è
sempre trattato di un amore incondizionato per lei, la protagonista: tutti gli
altri personaggi mi dicono poco, o nulla. Antipatico Calaf, melensa Liù,
semplici macchiette le tre maschere, lamentoso l’Imperatore, vecchio tremebondo
Timur. Su questa pletora di personaggi di mezzatacca, Turandot s’impone altera
e inarrivabile, per statura morale e politica; ferma nella sua volontà di
vendetta della ava Lou-Ling, violentata e uccisa da un principe straniero, ella
riscatta tutte le donne in vario modo stuprate in tutte le epoche dall’eterno
straniero, dal maschio, sovrano e tiranno delle esistenze femminili. E lo fa
senza esitazioni, in base a un ferreo principio, un principio addirittura
cristallizzato in una legge, che, come ben sa il popolo di Pechino, è questa:
Turandot,
la pura, sposa sarà
di
chi di sangue regio
spieghi
i tre enigmi
ch’ella
proporrà
ma
chi affronta il cimento e vinto resta
porga
alla scure la superba testa.
Non
ci sono attenuanti, mezze misure, giustificazioni, considerazioni. Sbagli? Ti
decapito. L’uomo fallisce la prova e Turandot ordina al boia di affilare la
scure; e questo è tutto.
Turandot
è cattiva? No, è coerente; e poi, in fondo, si limita ad applicare una norma,
agisce secondo diritto. Tutti conoscono la legge che vige a Pechino, tutti
sanno che Turandot è inflessibile nell’applicarla; quindi i prìncipi che si
sottopongono alla prova dei tre enigmi sono pienamente consapevoli di che cosa
li aspetti se falliscono. Eppure, ci provano lo stesso, pur sapendo che gli indovinelli
sono di una tale difficoltà che le loro probabilità di successo sono ridotte al
minimo; pensano di riuscire a sfangarla in qualche modo, con la tipica
protervia maschile che fa loro pensare di essere in grado di superare qualunque
prova, soprattutto se di mezzo c’è una donna, con la quale l’hanno avuta vinta
dalla notte dei secoli.
Leporello,
nel Don Giovanni di Mozart, nel celeberrimo catalogo “delle belle che amò il
padron mio” elenca le conquiste amorose del burlador di Siviglia, che ammontano
a più di duemila unità. E Ping, Pong e Pang, i tre ministri imperiali, elencano
il numero di prìncipi caduti sotto la scure del boia di Turandot: l’anno del
Topo furon sei, l’anno del Cane furon otto, e nell’anno in corso, il terribile
anno della Tigre, siamo già al tredicesimo con questo che va sotto! Ventisette in
tutto, non male se si pensa che la ragazza è comunque giovane, io la immagino
non più che ventenne. Certo ventisette teste mozzate sono niente in confronto
ai duemila cuori infranti da Don Giovanni; ma il gap è colmato dalla
considerazione che i cuori infranti forse si potranno, un giorno, rimarginare,
non così le teste recise, rotolate via dal corpo dei loro padroni, per sempre
estromessi dall’esperienza della vita.
Turandot,
quindi, assurge al ruolo di riscattatrice delle migliaia di donne sedotte e
abbandonate dai Don Giovanni di tutti i tempi. Per questo si è guadagnata la
mia predilezione, perché è una donna
anomala tra tutte quelle che incontriamo nel variegato mondo del teatro
d’opera; una donna di potere, che non
piange e si dispera per amore, ma pensa a governare con mano inflessibile il
suo regno senza lasciarsi distrarre da faccende di cuore e risolvendo in modo
assai razionale la questione dei pretendenti che via via le si parano dinanzi.
Turandot è bellissima, algida, inarrivabile, e dall’alto del suo trono fa quel che può per vendicare la memoria
dell’ava che ha avuto un destino così infelice:
Pure
nel tempo che ciascun ricorda
fu
sgomento, terrore e rombo d’armi
il
regno vinto!
E
Lou- Ling, la mia ava, trascinata
da
un uomo come te,
come
te straniero
là
nella notte atroce
dove
si spense la sua fresca voce
E
la voce di Turandot non è fresca, a dispetto della sua giovane età il
personaggio ha una vocalità il più possibile
lontana dal bamboleggiante cinguettio delle donne innamorate protagoniste
delle opere e sue colleghe; la sua voce svetta in acuto scura come un grumo di
sangue e tagliente come una lama, quasi per tranciare non solo quelle teste che
poi finiranno realmente mozzate dalla scure del boia, ma anche quelle di tutti
gli ascoltatori.
Come
ognun sa, Puccini non ha portato a termine la sua ultima opera, stendendola soltanto
fino al suicidio di Liù, personaggio che rappresenta l’esatto opposto di
Turandot: umile schiava, votata al sacrificio, innamorata di Calaf “perché un
dì, nella reggia, m’hai sorriso”, e per quel sorriso disposta a tutto, anche a
morire per salvare la vita di quel principe, innamorato perso di un’altra.
Insomma la più completa personificazione della tradizionale donna remissiva,
che trova il modo di riscattare la propria modesta condizione personale
soltanto immolandosi sull’altare del sacrificio supremo, quello del morire per
un uomo. Puccini è morto mentre si attardava a trovare un finale convincente
per la sua Turandot; si dibatte del perché stentasse tanto a concludere
l’opera. In effetti, rendere in modo plausibile il voltafaccia di Turandot, che
dopo due atti di slogan iperfemministi cede a Calaf soltanto perché egli la
bacia, appare impresa assai ardua. In pratica si tratta di sancire il primato
del richiamo del corpo e della sessualità sulla ragione e sull’adesione ai
princìpi ideali. Ha un bel vociare Turandot, al momento in cui un uomo
l’abbraccia e la possiede non è capace, persino lei, di sottrarsi al destino
che evidentemente pare accomunare tutte le donne, anche quelle che, come lei,
hanno provato seriamente a sottrarvisi.
Ma
Puccini non era convinto di questo finale,
e gli girava attorno, indeciso. Per la prima volta aveva dato voce a una
donna dalla personalità unica, così lontana dagli stereotipi, e forse avrebbe
preferito, in nome della coerenza e dell’amore che sicuramente portava per
quella sua ultima eroina, regalarle una fine meno ingloriosa del prevedibile
matrimonio con Calaf, che, solito uomo furbone, in un colpo solo si sposa e
diventa Re, e sicuramente provvederà quanto prima a ingravidare più e più volte
la sua sposa, mettendo a repentaglio la
divina bellezza del suo fisico e distogliendola per sempre dagli affari di
governo. Mi piace pensare che Puccini, al di là del libretto, che a quel punto
era già scritto, accarezzasse l’idea di far decapitare dal boia pure
Calaf, prevedendo per la sua principessa
di gelo un regno sempiterno, dispotico e asessuato, in cui i prìncipi continuassero
a sottoporsi agli enigmi senza risolverli, mentre Turandot dall’alto degli
spalti del palazzo reale continuasse a gridare per l’eternità, fiera e
inarrivabile, “No, mai nessun m’avrà.”
Ghena Dimitrova canta "In questa reggia" - La scala 1983
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